Traduzione della Prefazione alla edizione inglese di

La Falce Spezzata. Morte e Immortalità in Tolkien

di Verlyn Flieger



Nel 1936 J.R.R. Tolkien fece un commento sul Beowulf che si potrebbe agevolmente applicare alla sua opera letteraria. Descrivendo lo stato degli studi critici sul Beowulf a quel tempo, egli disse: “È possibile essere commossi dalla potenza del mito e tuttavia fraintendere questa sensazione, ascriverla interamente a qualcos’altro che sia ugualmente presente” (J.R.R. TOLKIEN, “Beowulf: mostri e critici.”, in IDEM, Il medioevo e il fantastico; Milano, Bompiani, 2004; pg. 42). Tolkien sfidava in questo modo l’opinione, allora corrente, che il Beowulf fosse un poema importante nonostante il suo contenuto fantastico, che descriveva battaglie con orchi e draghi laddove i critici avrebbero preferito più realistici avversari umani. La tesi di Tolkien era che la potenza del Beowulf andava ricercata proprio in quegli orchi e draghi piuttosto che in avversari meramente umani: i primi meglio incarnano e sostengono la tematica che permea l’opera, ovvero che lif is læne: eal scæceđ leoht and lif somod, “La vita è un prestito: tutto muore, luce e vita insieme” (Ivi, pg. 46), l’inevitabilità della morte come tragedia centrale e nemico ultimo della vita umana. In breve, dice Tolkien, la risposta dei lettori al Beowulf era libera e genuina, mentre il giudizio critico era basato sulla falsa premessa che il poema avrebbe dovuto essere qualcosa di diverso.

Basta solo pensare alle reazioni negative che una certa scuola di pensiero critico ha avuto per il Signore degli Anelli, per vedere come lo stesso commento possa applicarsi anche all’opera di Tolkien. Critici scettici riguardo al potere dei suoi miti hanno deplorato il suo contenuto fantastico, ascrivendone la popolarità precisamente a quel tipo di elementi fantastici che i critici del Beowulf biasimavano, al fascino e all’avvincente stranezza di Hobbit, Elfi, Nani, stregoni e alberi parlanti, che sono le sue caratteristiche più superficiali ed evidenti. Ed è vero che lettori che incontrano per la prima volta un’opera così piena di meraviglie possano (come spesso effettivamente accade) “fraintendere la sensazione”: la loro attenzione resta preda della fantasy in quanto tale, con scarsa consapevolezza delle più serie implicazioni di questa. Nonostante ciò, così come i primi lettori del Beowulf, essi, ad un livello più intimo di quanto si rendano conto, reagiscono ad un contenuto più profondo di quanto a tutta prima non siano consapevoli, un contenuto narrativo che trascende l’originalità della fantasy per toccare le vette e gli abissi dell’umana speranza e dell’umana disperazione.

Come la natura fantastica dei mostri del Beowulf tendeva ad oscurare la loro più profonda natura di rappresentazioni del “mondo ostile e della stirpe delle tenebre”, così gli aspetti favolistici del legendarium tolkieniano tendono a mettere in ombra il contributo che essi forniscono sul piano del significato più serio dell’opera. Entrambe le storie, in ultima analisi, sono incentrate sulla perdita e sulla morte. Gli elementi fantastici dell’immaginazione di Tolkien, come i mostri del Beowulf, hanno valore non solo in quanto tali, ma perché attraverso la fantasy essi veicolano il più grave, anzi tragico tema della mortalità, della morte come fine della vita umana. A dispetto dei suoi Hobbit amanti di birra e funghi, delle sue epiche battaglie e delle avventure fiabesche in boschi misteriosi, la vera forza del Signore degli Anelli risiede nella sua parte oscura, nella sua preoccupazione – tratta dalla sua mitologia genitrice, Il Silmarillion – per la morte e l’immortalità.

Come un substrato minerale profondo, perdita, mortalità e morte stanno sotto la superficie di tutto il corpus narrativo tolkieniano, e senza questo livello più profondo, la superficie crollerebbe, perché è l’incontro dei personaggi di Tolkien, anche degli immortali Elfi, con la perdita e la transitorietà della vita sulla terra che dà alla sua opera la sostanza. La necessità di studiare seriamente questo substrato è palese ed era tempo che lo si facesse; è appunto per affrontare questa necessità che i presenti saggi sono stati raccolti. Essi costituiscono un contributo di grande importanza per la nostra comprensione della narrativa tolkieniana e per l’apprezzamento della sua importanza non solo per l’epoca in cui visse il suo autore, ma anche oltre.

I saggi in questa collezione, tutti di seri studiosi del settore, sono da ascriversi ad un’attuale e assai opportuna tendenza della critica tolkieniana. Fino a poco tempo fa, gran parte degli studi dedicati a Tolkien si focalizzavano sulla varietà della sua inventiva, la completezza e integrità del suo Mondo Secondario, la complessità dei suoi linguaggi e le relazioni dei suoi miti con l’epica, il romanzo e la fiaba medievali. Benché la situazione sia cambiata in meglio in anni recenti, c’è stata anche una generale tendenza a concentrarsi sul magnum opus di Tolkien, ovvero Il Signore degli Anelli, mentre minore attenzione si è posta ad inquadrarlo nel più ampio legendarium, e meno ancora se ne è data ai racconti e poesie più brevi, i quali, sebbene differenti per forma, tuttavia trattano lo stesso tema. Tutti questi scritti sono parte di una rete di relazioni intessuta dall’uno nell’altro e intrecciata alle più vaste problematiche della storia e teologia e filosofia. È di questi più ampi temi che si occupa la presente raccolta di saggi.

Il volume comincia con il denso e ben argomentato lavoro di Franco Manni intitolato “Elogio della finitezza. Antropologia, escatologia e filosofia della storia in Tolkien”. Si tratta di un esame della relazione tra le circostanze della vita di Tolkien (la morte precoce di genitori e migliori amici, due guerre mondiali) e le correnti filosofiche profonde che, sebbene assai di rado (per non dire mai) richiamate esplicitamente, permeano nondimeno la sua opera. Correnti che Manni descrive come “temi centrali nella tradizione filosofica: etica, estetica, antropologia, storia e religione.”

Il saggio di Claudio Testi sul legendarium come meditatio mortis esamina da vicino l’intero corpus, dai primi e più mitologici “Racconti perduti” del 1917 a scritti posteriori al Signore degli Anelli, come l’ “Athrabêth” (la discussione più apertamente teologica nelle storie di Tolkien) e il “Leggi e costumi fra gli Eldar”, un resoconto di taglio più antropologico. Testi vede in questi tardi scritti la volontà di affrontare il problema generato sin dai primi racconti dall’esistenza di due razze, Uomini ed Elfi, con attitudini contrastanti riguardo alla morte. Il suo saggio offre una disamina delle questioni emotive, pratiche e filosofiche che questo contesto genera.

Il lavoro di Roberto Arduini, “Tolkien, la morte e il tempo: la fiaba incastonata nel quadro”, mette a confronto teoria e arte in Tolkien, mostrando l’interconnessione tra il saggio “Sulle fiabe” e il suo racconto breve “«Foglia» di Niggle”. Questo approccio è ulteriormente amplificato dall’analisi che Lorenzo Gammarelli fa del tema della perdita e del lutto nelle opere brevi di Tolkien, un miscellanea che include “Aotrou e Itroun”, “Imram”, “Il Troll di pietra”, “I Mewlips”, le due poesie che hanno per protagonista l’ “Uomo della Luna” e alcuni dei componimenti di maggior cupezza dalle Avventure di Tom Bombadil: “La campana del mare”, “Il tesoro”, “La sposa dell’ombra” e “L’ultima nave”. Fabbro di Wootton Major e “L’ultima canzone di Bilbo” chiudono l’argomentazione.

Prendendo come punto di partenza un commento contenuto nella lettera a Milton Waldman, laddove Tolkien dice che il proprio lavoro è incentrato principalmente su “la Caduta, la Morte e la Macchina”, Alberto Ladavas illustra “L’errato cammino del sub-creatore” attraverso la rappresentazione che Tolkien fa del popolo di Númenor e degli Spettri dell’Anello, entrambi preda della brama di possesso, sia dell’arte che della vita; brama che porta alla “Macchina”, ovvero al dominio, all’esercizio del potere, del quale l’Anello è il supremo esempio.

Muovendosi tra Mondo Primario e il Mondo Secondario tolkieniano, Simone Bonechi colloca la rappresentazione narrativa dei morti in Tolkien nel contesto della commemorazione in Gran Bretagna dei caduti delle due grandi guerre del Ventesimo secolo, e usa questa prospettiva per esaminare la varietà dei riti funerari rappresentati nel Silmarillion e nel Signore degli Anelli.

Il saggio di Andrea Monda si concentra sulla fuga dalla morte e sulla memoria come un tipo di fuga, esaminandole nel contesto della rappresentazione della longevità, o longaevitas, nel Signore degli Anelli. Elfi, Hobbit, Denethor, Saruman, Barbalbero, Tom Bombadil e l’Anello stesso incarnano aspetti positivi o negativi di fuga e memoria, e sono tutti parte del tema di Tolkien.

Ritornando all’ “Athrabêth” nel suo secondo saggio della raccolta, Claudio Testi affronta la struttura logica della dialettica di Tolkien in questa che è la più dialettica tra le sue opere, uno scritto assai tardo e sicuramente l’esempio più esplicito di discussione argomentata in tutto il legendarium. Questa tanatologia non è tanto una ricapitolazione, quanto un dibattito irrisolto tra Finrod e Andreth, rappresentanti rispettivamente gli Elfi e gli Uomini, che si pongono, senza risolverle, le rispettive domande sulla morte e sull’immortalità. Risolto o irrisolto l’ “Athrabêth” è un testo importante, sia dal punto di vista teologico che da quello filosofico, come mostra Testi: “una sintesi di profonda importanza letteraria e teoretica.”

Il saggio di Giampaolo Canzonieri, l’ultimo del volume, tenta un approccio un po’ diverso, analizzando, in termini di differenze tra Uomini ed Elfi, il dualismo tra morte e dolore al posto del convenzionale dualismo tra morte e immortalità che troviamo negli altri saggi.

Bisogna ringraziare gli autori di questi studi e i curatori che li hanno raccolti, per aver reso disponibile ad un più ampio pubblico di lettori e studiosi di Tolkien una raccolta la cui forza risiede nel suo essere coerente e varia allo stesso tempo: non solo nei differenti approcci degli autori rispetto ai temi di morte e immortalità in Tolkien, ma anche nella gamma delle opere prese in considerazione in rapporto ad essi – dalle poesie e racconti minori e di più rara lettura, pubblicate in periodici da tempo estinti, e ora spesso di difficile reperimento, alle opere più popolari che hanno reso Tolkien è famoso.

Nella sua prefazione del 1977 al Silmarillion, Christopher Tolkien osservò che le vecchie leggende dei miti di suo padre erano diventate nel tempo portatrici delle sue più profonde riflessioni, mentre gli scritti più tardi tendevano a rimpiazzare mitologia e poesia con preoccupazioni di ordine più teologico e filosofico. Il presente volume cerca di mettere insieme gli aspetti poetici e filosofici dell’opera di Tolkien, di collegare entrambi con le considerazioni su morte e immortalità da lui espresse nelle lettere e infine di mostrare come tutti e tre questi ambiti siano componenti di una medesima concezione essenziale – tutti rampolli del pensiero di Tolkien, come gli Ainur erano rampolli di quello di Eru.


[traduzione di Simone Bonechi autorizzata dall'Autrice e dal Curatore del volume ]