TOLKIEN E LA FILOSOFIA
di Riccardo Toni
“Tolkien e la filosofia” è la nuova pubblicazione della collana “Tolkien e dintorni” di Marietti 1820, sezione della casa editrice esclusivamente dedicata a saggi critici riguardanti l'opera tolkeniana e del gruppo degli Inklings. Il volume raccoglie gli atti dell’omonimo convegno internazionale che ha coinvolto i maggiori esperti dell'autore a livello mondiale a Modena riuniti dall'Istituto Filosofico di Studi Tomistici, in collaborazione con l'Associazione Romana di Studi Tolkeniani, il 22 Maggio 2010.
Ad aprire i lavori sono stati due grandi studiosi e appassionati di Tolkien, che sono giunti a lui per due strade diverse. Tom Shippey, filologo accademico prima ad Oxford poi a Leeds, università in cui insegnò anche Tolkien, e Franco Manni, esperto di filosofia, di teologia e autore di importanti pubblicazioni su Tolkien, per le quali è ritenuto uno dei maggiori esperti in Italia. Il loro dibattitto Tolkien tra Filosofia e Filologia, si apre con la domanda di Manni: "Perché Tolkien non menziona né la filosofia né i filosofi?". Pur conoscendo la filosofia e riferendosi ad essa nella creazione della sua opera, egli non nomina mai esplicitamente teorie o nomi di filosofi. Ma se questa domanda è un cruccio per uno studioso di filosofia, non lo è per il filologo Shippey. Tolkien, infatti, era un filologo, di temperamento analitico, con una tensione ad approfondire le cose nel dettaglio per scoprire la loro storia, le loro relazioni e, in questo modo, la loro essenza più profonda. Non appartiene quindi al mondo della filosofia, che tende a sintetizzare le cose di cui si fa esperienza in teorie.
A questa distinzione fra le due discipline Manni replica sostenendo che filosofia e filologia non sono due universi separati. Anzi, esse non possono che influenzarsi e condizionarsi fra loro nel corso del tempo. Neanche l'opera di Tolkien si può rigidamente categorizzare in filologica o filosofica senza, in questo modo, creare confusione. Essa, infatti, si fonda su temi fondamentali che sono basilari per la filosofia: l'etica, l'estetica, la storia e la religione. Il modo in cui questi temi compaiono rispecchia un'aderenza alla tradizione filosofica occidentale, che Tolkien conosceva. Manni dimostra con molti esempi, casi in cui i filosofi hanno contribuito alla formazione del sfondo culturale sul quale si muoveva Tolkien.
A queste argomentazioni Shippey risponde con un detto tolkeniano: "è importante gustare la zuppa piuttosto di sapere che cosa contiene". E con questo vuole affermare che è più importante apprezzare e comprendere il pensiero di Tolkien piuttosto di cercare di indagare da dove esso sia pervenuto, quali siano i suoi componenti e su cosa si fondi. Non sono importanti i filosofi e loro minuzie, ma come i loro pensieri si trasformino in vita nel singolo. In Tolkien e nella sua letteratura, in questo caso.
Shippey conclude poi il suo ultimo intervento proponendo due temi a lui cari e presenti nei suoi studi su Tolkien, ormai diventati classici per gli studiosi tolkeniani. Il primo tema è quello del male, che secondo Shippey ha una duplice natura: sia boeziano che manicheo, ed è proprio questa ambivalenza che ha reso così affascinante l'opera di Tolkien. Su questo punto Manni replica interpretando la concezione del male in Tolkien come unicamente agostiniano-boeziana, dunque come privazione del bene (privatio boni).
Il secondo tema è quello discusso da Shippey è quello della Provvidenza, che sostiene essere il tema principale del Signore degli Anelli. Nella sua complessa trama, infatti, questa grande opera letteraria di Tolkien, è ricondotta all'unità da un disegno unico, che si rivela soltanto alla fine. Tutte le azioni singole, scelte dal libero arbitrio, entrano a far parte di un disegno generale che non possiamo non definire provvidenziale ("anche i più saggi non conoscono tutti gli esiti"). Il compito del singolo, dunque, all'interno dello spazio e del tempo della sua esistenza terrena, è quello di scegliere di compiere la sua parte di bene e di portare il peso del male.
Nel parlare di questi due grandi temi che sono a fondamento della struttura letteraria del capolavoro di Tolkien, Shippey fa continuamente richiami alla tradizione filosofica e teologica. Sembra quindi riconoscere l'importanza della storia su cui Tolkien si è fondato e in questo modo sembra riconciliarsi con l'intervento di Manni. Infine è quindi emerso un possibile accordo fra i due studiosi, nonostante i diversi percorsi di studio e le appartenenze culturali.
Segue il contributo La filosofia tolkeniana del tempo e del linguaggio di Verlyn Flieger, autrice e professoressa di letteratura medievale presso l’università del Maryland. La riflessione è volta a mostrare la tesi filologica su cui Tolkien basava la propria narrativa e cioè che linguaggio, mitologia e mente sono sistemi interdipendenti e cooriginari. Non può esistere, infatti, una storia senza qualcuno che la racconti, non si può raccontare una storia senza un linguaggio per esprimerla e non può esistere un linguaggio senza qualcosa di cui parlare. La mitologia non usa il linguaggio, ma è linguaggio. E il linguaggio non esprime la mitologia, ma è mitologia viva, in azione, in movimento. In questo senso bisogna leggere ciò che Tolkien scrisse nel suo trattato “Sulle fiabe”: “Domandarsi quale sia l’origine delle storie, significa domandarsi quale sia l’origine del linguaggio e della mente”.
Dopo aver delineato la tesi filologica, la Flieger ne traccia la genesi: la filosofia del linguaggio di Barfield, l’ermeneutica di Cassirer, la teoria di Sapir e Whorf sul rapporto tra visione del mondo, racconti e linguaggio.
Infine partendo da cinque esempi concreti attinti dall’opera tolkeniana, mostra l’effetto che questa tesi filologica ha sulla narrazione: il linguaggio è un processo, che dipende dall’esperienza, dalle cose, dal tempo. La natura delle cose e delle persone plasma il nome che ad esse viene attribuito. E questo può cambiare, in base all’esperienza e alla storia.
Si torna in terra italiana con il dibattito Tolkien pensatore cattolico?, fra Andrea Monda, professore di religione e studioso di Tolkien, e Wu Ming 4, scrittore membro del collettivo di autori Wu Ming.
Andrea Monda inizia la sua riflessione rispondendo subito alla domanda: nella sua opera letteraria Tolkien esclude ogni intento speculativo ed esprime piuttosto temi religiosi e questioni morali attraverso la narrazione. L’elemento religioso non è quindi esplicito ma radicato nella storia e nel simbolismo. Non fu un pensatore cattolico, ma un romanziere con simbolismo cattolico.
Questa tesi è sostenuta da due idee: la prima è che tra artista e opera sussiste un nesso forte. La fede di Tolkien, che costituiva una parte fondamentale della sua visione del mondo, diventa la base anche del mondo che ha creato. Monda richiama l’idea tolkeniana della sub-creazione: “creiamo secondo a legge che ci ha creati”. L’autore è un sub-creatore che, come Dio è creatore, anche egli crea, ma a livello secondario, attraverso l’uso della fantasia.
La seconda idea è che il cristianesimo è una religione incarnata, fugge quindi dalle categorie astratte privilegiando la fisicità, il dinamismo della vita e, nel caso di Tolkien, della narrazione.
Dopo aver espresso la sua tesi, Monda indica gli elementi che, nell’opera principale dell’autore: il Signore degli Anelli, richiamano maggiormente un simbolismo cattolico. Il primo di essi è la centralità hobbit. Questo rappresenta un elemento anomalo rispetto alla tradizione della narrazione fantastica, in quanto Tolkien non sceglie come protagonisti un’elite di forti, ma un popolo di umili. Gli hobbit, infatti, sono i veri eroi del romanzo, ma sono eroi inconsueti in quanto sono gli ultimi. Ultimi arrivati sulla terra, ma anche umili, che conducono una vita semplice, quasi dimenticati dal resto del mondo, al rifugio della loro Contea. Nonostante questo sono comunque capaci di ribaltare il corso degli eventi. Monda legge in questo un chiaro segno di derivazione cristiana: l’esaltazione degli umili.
Il secondo tema di derivazione cristiana è la Gioia. Essa attraversa il romanzo dal principio alla fine e non è una gioia qualunque, ma di carattere cristiano, in quanto essa affronta e comprende il male. L’eucatastrofe finale, rappresentata dalla vittoria sul potere di Sauron, è l’improvviso capovolgimento gioioso che vince il dolore e il fallimento.
A queste riflessioni di Monda, segue l’intervento di Wu Ming 4, che si dichiara non concorde con la tesi di Monda, che definisce Tolkien un narratore cattolico. Se con tale termine si indicano scrittori come Dante e Manzoni, che nello scrivere avevano intenzioni religiose, non si può accomunare ad essi Tolkien, che aveva invece come fine il narrare “una storia avvincente”. La fede cattolica dell’autore è una condizione necessaria, ma non sufficiente per spiegare l’ispirazione, la poetica e la portata tematica.
La capacità sub-creativa è il grande dono di Dio all’umanità, tramite il quale può esprimere verità parziali sulle cose. A Tolkien non interessava disquisire su teorie filosofiche, ma usò concetti filosofici per costruire un universo letterario che fosse specchio del mondo reale. L’attività della narrazione così impostata ha una forza di trasformazione della realtà. Il racconto acquista la potenza di parlare ai lati più nascosti del nostro essere e spingerci a far cose del tutto imprevedibili.
Gli eroi di Tolkien non sono del tutto cristiani, ma non sono più pagani. Sono figure intermedie e, in quanto tali, universali e comprensibili da qualunque lettore. Essi sono animati dalla virtù del coraggio interiore, ottenuto facendo la scelta etica che si compie affrontando la morte. Ne sono un esempio Gandalf che sul ponte di Khazad Dûm si sacrifica per la Compagnia, Frodo che al consiglio di Elrond accetta di portare l’anello, Theoden alla battaglia dei campi del Pelennor.
Chiude il volume, l’intervento Filosofia e Teologia tolkeniana della morte di Christopher Garbowski, professore di storia all’università di Lublino, Polonia. La riflessione è finalizzata a dimostrare come la Teologia tolkeniana della morte è inseparabile dalla sua teologia della vita. E che entrambe sono inserite nel contesto della teologia della narrazione, espressa già in precedenza con la teoria della sub-creazione.
Tolkien tratta apertamente il tema della morte nel dialogo fra Finrod e Andreth. La morte è un’ingiustificabile violenza della propria persona. È una fine estrema, una perdita irrimediabile. Ma è proprio il rapporto ad essa a caratterizzare la crescita personale di ogni individuo. L’accettazione della morte e la speranza di un’immortalità successiva, caratterizza gli eroi tolkeniani. E proprio su tale scelta si fonda la forza di reazione al male. Al contrario, chi non accetta la propria morte e ricerca l’immortalità ottenuta con la forza, è destinato al dolore perpetuo di avere la propria natura frustrata senza termine. È questo il caso degli Spettri dell’Anello.
Come detto in precedenza, questa idea di base di Tolkien, non è separabile dalla sua Teologia della vita, che Garbowski declina in alcuni temi: l’Eucatastrofe, la Provvidenza, la Comunità come società per la salvezza, l’importanza amicizia per la felicità.
La narrazione è quindi un’attività religiosa, ma non è religione in se stessa. Attraverso essa Tolkien propone ai propri lettori un telos, un insieme di valori, che non sono espressi in modo esplicito, ma sono radicati nella storia e nel simbolismo.