Combattendo la lunga sconfitta: la filologia nella vita e nelle opere di Tolkien1
di Tom A. Shippey
Coloro che hanno letto le opere del Professor Tolkien sanno che esse parlano di una guerra dura, «lunga e micidiale, e combattuta per lo più in luoghi profondi sotto terra», che si conclude con una catastrofica disfatta. All’interno delle sue storie, queste parole descrivono la guerra dei Nani e degli Orchi, che si concluse con la battaglia di Azanulbizar, o Nanduhirion, «al ricordo della quale ancor oggi gli Orchi rabbrividiscono e i Nani piangono» (SDA AppA.III). Nella vita vera, invece, quelle parole descrivono al meglio la guerra tra filologi e critici o, in altre parole, la guerra tra “linguaggio” e “letteratura”, combattuta con incredibile asprezza nei dipartimenti d’inglese di tutte le università del mondo anglofono e terminata con l’assoluta disfatta della fazione di Tolkien, quella dei filologi.
Per dirla in modo meno fantasioso, sono sicuro che se qualcuno avesse chiesto a Tolkien di descrivere se stesso con una sola parola lui avrebbe risposto: «Io sono un filologo». Un’espressione che avrebbe potuto specificare dicendo, come ha fatto in almeno un’occasione documentata, «Io sono un filologo puro» (Lettere, n. 205). L’obiettivo della sua vita professionale era fondare un efficace corso di studi in filologia per le università inglesi, ma ha fallito, e non è riuscito nemmeno a mantenere questo corso di studi nello stato in cui versava quando iniziò ad insegnare: lo dico senza derisione, poiché si potrebbe dire esattamente la stessa cosa di me, come so molto bene. Tutto ciò mi porta a ritenere che oggi sia ormai estremamente difficile, se non addirittura impossibile, trovare nel mondo, specialmente nel mondo anglofono e ancor peggio nella stessa Inghilterra, un corso di studi del tipo che Tolkien avrebbe approvato. Quando Galadriel dice di sé e di suo marito Celeborn che «attraverso le ere del mondo abbiamo combattuto la lunga sconfitta» (SDA CA.II.VII), si comprende che Tolkien avrebbe potuto dire lo stesso di sé, così come dei suoi colleghi filologi precedenti e successivi: abbiamo tutti combattuto insieme la lunga sconfitta. Ciononostante, vi è una certa ironia nel fatto che, fuori dal ristretto mondo accademico, tale sconfitta è stata significativamente ribaltata dalle opere di Tolkien in un modo che nemmeno Gandalf stesso avrebbe potuto prevedere.
Questo senso di sconfitta è testimoniato da tre documenti relativi alla vita di Tolkien. Il primo proviene dalla domanda di assunzione, datata 27 giugno 1925, inoltrata da Tolkien all’università di Oxford per ottenere la cattedra di anglosassone, lasciata vacante da W.A. Craigie. Il tono della lettera è scontato: una richiesta per un futuro lavoro, che diventa anche un’estesa sviolinata riguardo a quanto bene si è fatto nel lavoro attuale. Tolkien dice che all’Università di Leeds, dove era stato Lettore dal 1920 al 1924 e Professore ordinario dal 1924 in poi,
Ho cominciato con cinque titubanti pionieri in una facoltà […] con circa sessanta iscritti. Oggi la proporzione è diventata 43 studenti di letteratura contro 20 di linguistica. I linguisti non sono in alcun modo isolati o tagliati fuori dalla vita e dal lavoro del dipartimento e partecipano a molti dei corsi di letteratura della facoltà, ma dal 1922 la loro preparazione puramente linguistica consiste in lezioni speciali ed è esaminata con prove particolari, con un approccio ed uno standard diversi. […] Si tengono corsi sulla poetica eroica in inglese antico, sulla storia dell’inglese, su vari testi in inglese antico e medievale, sulla filologia dell’inglese antico e medievale, e corsi introduttivi di filologia germanica, gotica, islandese antica […] e gallese medievale. […] Per questi studenti la filologia sembra davvero aver perso le sue connotazioni di terrore, se non addirittura di mistero. È stato organizzato un corso composto da attive discussioni […] ed esso ha portato ad una amichevole rivalità e al dibattito aperto con il corrispondente gruppo dei letterati. […] [Se assunto] tenterò di incrementare, al meglio delle mie possibilità, la crescente vicinanza fra studi linguistici e letterari, i quali non possono essere nemici se non a causa di fraintendimenti e a svantaggio di entrambi; e cercherò inoltre di incoraggiare in modo sempre più ampio e fertile l’entusiasmo dei giovani per la filologia. (Lettere n. 7, t.n.)
Il sottotesto di questa lettera è ancora una volta ovvio. Si notino le affermazioni «in alcun modo isolati […] rivalità amichevole […] crescente vicinanza» e, ovviamente, la scomparsa delle «connotazioni di terrore». Altre testimonianze suggeriscono però che le affermazioni di Tolkien non fossero completamente veritiere, e che i filologi e i letterati di Leeds fossero, come sempre, ai ferri corti: il volume Songs for the Philologists contiene infatti almeno una poesia di Tolkien che prende crudelmente in giro gli studenti e la facoltà di letteratura.2 Ma Tolkien sapeva bene che il comitato di selezione di Oxford cercava qualcuno che non causasse problemi e che collaborasse con i suoi colleghi modernisti, per cui fece in modo di apparire esattamente come la persona che stavano cercando (come si fa in certe circostanze). Certo, però, non avrebbe mai pensato di essere davvero scelto per quella cattedra ad Oxford. Era professore da soli cinque anni e aveva pubblicato ben poco, se si eccettua l’edizione di Sir Gawain e il cavaliere verde realizzata insieme a E.V. Gordon. Inoltre, anche Kenneth Sisam aveva fatto domanda per quel posto: Sisam era più vecchio di Tolkien, era stato il suo mentore e aveva già un lavoro ad Oxford. Come mai Tolkien vinse, per un solo voto, rimane un mistero.3
Alcuni anni dopo, quando era ormai saldamente insediato nella sua cattedra, Tolkien scrisse un pezzo molto più sincero per la rivista The Oxford magazine del 29 maggio 1930: una proposta per riformare la “Facoltà di inglese di Oxford”. Si vedrà nel seguito come in questo scritto Tolkien non abbia più perso tempo a parlare di “rivalità amichevoli” o “vicinanze”, ma abbia affermato piuttosto il contrario:
Alla facoltà di inglese, a causa delle vicissitudini della sua storia, la differenza fra filologia e letteratura è notoriamente marcata […] [e] questi suoi due rami sono solitamente definiti, in modo impreciso, “linguaggio” e “letteratura”: etichette non molto accurate, fortunatamente per entrambi. La storia può spiegare l’insorgere di queste definizioni, ma non fornisce alcuna scusa per la loro persistenza. La loro messa al bando è probabilmente la prima riforma di cui necessita la facoltà di inglese di Oxford. Perfino etichettarle A e B sarebbe meglio […]
E poi c’è la “filologia”, speciale fardello delle lingue nordiche, perfino dell’islandese classico, eppure loro speciale vantaggio come disciplina. La filologia non può essere esclusa dallo studio di queste lingue, poiché è essenziale all’apparato critico degli studenti così come degli studiosi. Le poesie e la prosa che essi studiano – il senso delle parole, la sintassi, lo stile, la metrica e le figure retoriche – sono state infatti salvate dall’oblio dai filologi.4
Il sottotesto di questo scritto (che nessuno a quel tempo ha probabilmente compreso, e pochi lo hanno fatto anche in seguito) suggeriva che Tolkien avrebbe voluto rimpiazzare il programma del suo corso a Oxford con quello cui si era abituato a Leeds, nel quale i “due piccoli schemi” del poema precedentemente citato erano appunto chiamati “schema A” e “schema B” (Entro il 1979, anno in cui arrivai a Leeds da Oxford per occuparmi della cattedra di lingua e letteratura inglese medievale, occupata più di cinquant’anni prima da Tolkien, si erano trasformati in schema A, B, C e D, e c’era un progetto per la creazione di uno schema E. Fui in gran parte responsabile dell’abolizione di tutto l’impianto burocratico intrapresa nel 1983). Ci sono diverse opinioni riguardo all’efficacia del piano di Tolkien del 1930: quando arrivai ad Oxford come insegnante nel 1972 il corso di studi in filologia della facoltà di inglese (quello che Tolkien sembrava intendere come “schema B”) era di fatto moribondo, con meno di dieci studenti all’anno su 250. D’altra parte, Gross ritiene che il piano di riforma di Tolkien e Lewis fu accettato (Gross 1999: 440), anche se non capisco su quali basi. Inoltre, non è per nulla chiaro cosa intendesse Tolkien parlando di «speciale fardello» e «speciale vantaggio»: si ha la sensazione che tutto l’articolo sia “codificato” per essere significativo solo per chi fosse a conoscenza della situazione dell’epoca.
Ad ogni modo, alla fine della sua carriera Tolkien si trovava nella posizione di poter essere ancora più schietto, e così fu nel suo “Discorso di commiato all’Università di Oxford” (peculiarmente, non aveva mai trovato il tempo di scriverne uno “inaugurale”) tenuto dopo che si fu ritirato, il 5 giugno 1959. Giunto a quel punto, egli sembrava essere in cattivi rapporti con molti dei suoi colleghi della facoltà di Oxford e coniò così un nuovo termine per descriverli: per lui erano “misologi”, l’esatto opposto di “filologi”, sarebbe a dire non “coloro che amano la parola” ma “coloro che odiano la parola”. Persone come loro non avrebbero dovuto essere ammesse in nessuna università, né come studenti né come docenti:
Non credo che [la filologia] debba essere ficcata in gola come una medicina, perché ritengo che, se un simile processo sembra essere necessario, chi è destinato a subirlo non dovrebbe essere qui, per lo meno non dovrebbe studiare o insegnare letteratura inglese. La filologia è il fondamento degli studi umanistici e la “misologia” è quindi un difetto, una malattia che rende inabili a tali studi.
Secondo la mia esperienza, questo è un difetto, o una malattia, che non si riscontra in coloro che la cultura umanistica, la saggezza e l’acume critico hanno elevato ad un livello più alto; […] Ma ci sono anche altre voci […] e devo confessare che qualche volta, in questi ultimi eccentrici trent’anni, sono stato afflitto da esse: da quanti, in qualche misura affetti da misologia, hanno screditato ciò che loro chiamano lingua […] L’ottusità deve essere compatita. O così spero, essendo io stesso ottuso in molti ambiti. Ma l’ottusità dovrebbe anche essere confessata con umiltà, e pertanto ho percepito come un’offesa il fatto che certi professionisti suppongano che la loro ottusità e ignoranza non solo siano la norma, ma anche un metro con cui misurare ciò che è buono. E ho provato rabbia ogni volta che essi hanno cercato di imporre i propri limiti su menti più giovani, distogliendo dalla propria inclinazione chi aveva interesse verso la filologia e incoraggiando chi non aveva quell’interesse a pensare che quella loro mancanza fosse segno di una mente superiore. (MF 321, t.n.)
Ovviamente, aggiunse Tolkien in quell’occasione pubblica, con quelle parole non si riferiva a chiunque ma solo a “certi professionisti” e a quelli “non ad un livello più alto”. Sono però sicuro che gli interessati sapessero a chi si riferiva, e senza dubbio molti di loro erano presenti, il che testimonia la rimarchevole mancanza di tatto di Tolkien.
Dietro la stesura di questi scritti sta la spinta, costante lungo tutti gli oltre quarant’anni di carriera accademica di Tolkien e presente in tutti i dipartimenti di inglese delle università inglesi e americane, a liberarsi di tutti i corsi di Anglosassone, degli esami obbligatori su storia del linguaggio e sul medioevo, per rimpiazzarli con studi più moderni, più letterari e più critici. Questa spinta è durata oltre cinquant’anni e, come già detto, ha avuto un successo quasi completo all’interno del mondo anglofono. Viene però da pensare che le cose non dovessero andare necessariamente in questo modo. Dopo tutto, la Terra di Mezzo di Tolkien si è dimostrata indubbiamente “vendibile” ad un vastissimo pubblico e ha sollevato una diffusa e appassionata curiosità riguardo alle fonti delle sue idee, del suo mondo e dei suoi linguaggi, a riprova, come avrebbe fatto notare Tolkien, che una propensione per la filologia è normale e naturale nelle giovani menti, qualunque cosa gli abbiano insegnato i docenti. Di conseguenza, cosa è andato storto?
Una delle cause principali della “lunga sconfitta” è stata l’incapacità di dare una definizione della materia, così come della parola. “Filologia” è in effetti una parola difficile con molti significati, come ho già provato a spiegare in qualche misura altrove (Shippey 2005b: 27-38). Qui dirò soltanto che l’Oxford English Dictionary, esso stesso un’opera marcatamente filologica, non riesce ad essere d’aiuto. Le definizioni fornite sono:
Amore per l’apprendimento e la letteratura; studio della letteratura, in senso più ampio […] apprendimento colto.
Amore per l’eloquenza, il discorso e l’argomentazione, opposto all’amore per la saggezza, alla filosofia.
Studio della struttura e dell’evoluzione del linguaggio; lo studio del linguaggio; linguistica (in realtà una branca del significato 1)5
Nessuna di queste definizioni aveva molta rilevanza per Tolkien. Qualsiasi cosa sia l’“apprendimento colto” del significato 1, a lui non interessava. Inoltre, la strana confusione del significato 3, in cui la filologia è “lo studio del linguaggio” ma “in realtà” una branca del significato 1, che è “lo studio della letteratura”, non tiene conto dell’evidente ostilità fra i due campi di studio, ostilità che abbiamo visto diventare sempre più manifesta nei tre documenti di cui sopra. Nel significato 2, oltretutto, la filologia è cavillosa, la definizione di amore per l’eloquenza come opposto all’amore per la saggezza non tiene in considerazione il fatto che abbiamo così tante riviste accademiche con titoli come Studi di filologia, Filologia moderna, Filologia trimestrale, Rivista di filologia inglese e tedesca. Chi chiamerebbe il proprio giornale, come sembrerebbe equivalente credendo all’OED, “Studi capziosi” o “Cavillo moderno”? Infine, nessuna delle definizioni date dall’OED spiega la caratterizzazione di filologia data da Jacob Grimm nel ben più vecchio corrispondente tedesco dell’OED, il Deutsches Wörterbuch dei fratelli Grimm: keine unter allen den wissenschaften ist stolzer, edler, streitsüchtiger als die philologie, oder gegen fehler unbarmherziger, “nessuna tra le scienze è più fiera, più nobile, più battagliera e meno clemente con gli errori della filologia” (Grimm 1999: XIII, col. 1829). Grimm riteneva che la filologia non avesse nulla a che fare con “l’apprendimento colto”, egli pensava invece che fosse cruda scienza.6
La parola che l’OED omette è “comparativa”. La filologia è stata tutto ciò che l’OED descrive finché non è diventata “filologia comparativa”, vergleichende Philologie, evento segnato dalla pubblicazione della Deutsche Grammatik di Jacob Grimm tra il 1819 e il 1837. Ho già parlato altrove, e in più di un’occasione, dell’importanza di questo libro e della svolta intellettuale che ha rappresentato, quindi, ancora una volta, non mi ripeterò qui.7 In breve, la filologia comparativa era una disciplina completamente nuova, sconosciuta nel mondo antico e in quello medievale: mise a nudo le relazioni tra i linguaggi, così come le storie dei linguaggi e delle persone che li avevano parlati; consentì la ricostruzione di lingue scomparse, la lettura di molti testi antichi e dimenticati e il recupero di tradizioni letterarie perdute. A un livello molto più basilare, spiegò come mai nell’inglese moderno siano presenti due parole diverse con il medesimo significato, break e fracture, e come emerse questa differenza. Gettò luce su decine, se non centinaia di migliaia, di parole. Permise a Tolkien di riflettere sul significato del cognome di sua zia Jane, Neave, e di inventare suggestivi nomi dalle radici profonde, come Frodo o Baggins; lo aiutò a creare, o ricreare, parole, nomi e concetti come wood-wose,8 hobbit, dwimmerlaik9 e Saruman, tutte parole di cui ho già parlato altrove in queste pagine.10 Ancor più importante, la filologia comparativa spalancò un intero nuovo mondo di spazio immaginativo (di cui la Terra di Mezzo di Tolkien e il “Mark of the Wolfings” di William Morris sono due esempi) e lo fece con un misto di rigore e romanticismo. Cercherò di illustrare tutto ciò con un solo esempio.
Nel Beowulf esiste un ben noto problema. Il tesoro del drago è maledetto? Beowulf soccombe alla maledizione? E come funziona? È stata spezzata? La questione è sollevata per la prima volta nei versi 3051-7, nei quali si dice esplicitamente che esiste una maledizione e che Dio può spezzarla, ma non si dice che l’abbia già fatto. Tolkien utilizzò il verso 3052, iumonna gold galdre bewunden, “l’oro degli antichi avvolto da sortilegio”, come titolo di una poesia pubblicata nel 1923, riscritta nel 1962 e poi ancora nel 1970. Inoltre, i versi 3069-75 raccontano che fu colui che seppellì il tesoro a lanciare la maledizione. Riporto qui parte del testo esattamente come si trova nel manoscritto, ovvero senza accenti, senza la divisione delle parole corretta, con i finali di verso segnati da una doppia riga (//) e scritto come se fosse prosa. La maledizione dice:
þæt se secg wære synnum scildig […] seðone // wong strade næshe goldhwæte gearwor // hæfde agendes est ær gesceawod
Si presentano qui molteplici questioni. I versi dicono “l’uomo fosse colpevole di misfatti” poiché il verbo è al congiuntivo wære, non wæs. Poche parole dopo sembra dire, questa volta all’indicativo næs, “lui non era avido d’oro”, dove “lui” si riferisce presumibilmente alla stessa persona indicata poco prima con “l’uomo”. Oltre a ciò, si potrebbe pensare che agend, singolare, sia “il possessore”, cioè la persona che ha seppellito il tesoro, ma poche righe prima erano “le persone”, plurale, ad averlo seppellito. Agend con la maiuscola (ancora non utilizzato in questo modo dagli scrittori Anglosassoni) potrebbe significare “il Possessore”, ovverosia “Dio”. Inoltre, la parola strade non sembra appartenere all’inglese antico, ma dev’essere un verbo. In inglese antico esiste un verbo, strúdan, “saccheggiare”, che ben si inserirebbe nel contesto, ma strade non è fra le sue possibili forme. Prima del lavoro dei Grimm nessuno si sarebbe preoccupato di quest’ultimo punto, perché nessuno sapeva come declinare i verbi in inglese antico, ed era diffusa, tra gli studiosi, l’idea per cui quei poveri barbari semplicemente non sapevano scrivere correttamente ed era quindi normale aspettarsi strane varianti delle parole (questa visione delle cose portava gli studiosi a errori bizzarri).11 Ma dopo i Grimm si poteva dire che quello era un verbo forte di Classe 2 (e se qualcuno non sapeva cosa fosse un verbo forte di Classe 2, allora la sua opinione sulla questione non aveva alcun valore),12 quindi la sua forma doveva essere o stread, terza persone singolare dell’indicativo passato, o strude, terza persona singolare del congiuntivo passato. Salta subito all’occhio come in questa equazione siano presenti molte variabili che contribuiscono a determinare il significato di un passaggio estremamente importante, forse addirittura dell’intero e complesso poema. Dovremmo pensare che la maledizione sia ricaduta su Beowulf e ne abbia causato la morte? Era o non era “avido d’oro”? Dovremmo vederlo come “colpevole di misfatti”? Purtroppo non sappiamo cosa Tolkien pensasse di questo passaggio, o se l’abbia toccato durante le sue conferenze di commento al poema,13 e d’altronde la sua traduzione non è mai stata pubblicata, ma io tradurrei, senza troppa convinzione: “[la maledizione diceva] che chi avesse saccheggiato [strude] il luogo del seppellimento [wong] sarebbe stato [wære] colpevole di misfatti, a meno che [nefne, al posto di naes] nella sua brama d’oro avesse prima cercato il favore del suo [sommo] Possessore [cioè Dio]”. Mi sembra però che ci sia un ulteriore problema, irrisolto anche nella mia traduzione: la maledizione è qualcosa di apposto al tesoro (come nel caso dell’anello di Andvari, “L’anello dei Nibelunghi”), e quindi qualcosa di esterno, o è piuttosto qualcosa di connesso al peccato di avidità, qualcosa nel tesoro, qualcosa di psicologico e interno? In questo caso sospetto che Tolkien avesse concluso, come faceva spesso, che il significato dovesse essere duplice: la maledizione e il peccato di avarizia sono la stessa cosa. È questa la “malia del drago” che, nello Hobbit, affligge Smaug, Thorin Scudodiquercia e il Governatore di Lagolungo, che ruba l’oro e muore di fame nelle terre selvagge. Così come ne sono affetti molti personaggi della poesia “Iumonna Gold […]”, ossia “Il tesoro”, che segue le disastrose vicende di quel tesoro nel suo passare da un elfo, a un nano, a un drago, a un giovane eroe, il quale morirà vecchio e in miseria, con il tesoro seppellito e perso per sempre.14 Si può dire che il climax dello Hobbit dipenda da questo nodo fondamentale del Beowulf. Qualcuno potrà notare, però, che non si tratta di una maledizione inevitabile: Bilbo Baggins ne è piuttosto immune, per cui anche Beowulf avrebbe potuto esserlo.
Tuttavia, il punto cruciale del paragrafo precedente non è risolvere una questione notoriamente irrisolvibile, ma far notare che questo è il modo in cui lavorano i filologi: nelle loro menti i congiuntivi e le classi dei verbi forti sono intrecciati con (per dirla con le parole di Bilbo, LH I) «draghi e Orchi e giganti e la liberazione di principesse e la fortuna inaspettata di figli di vedove», ed essi (o alcuni di essi) non vedevano alcuna differenza fra le due cose. Questo è ciò che i filologi non sono mai riusciti a chiarire. Alla fine, a causa di studiosi più ottusi di Tolkien, i verbi forti, le trasformazioni fonetiche e tutti questi dettagli pedanti (ma essenziali) persero contatto con la poesia, gli intrecci, i miti e le storie, arrecando danno ad entrambi gli aspetti della disciplina. Questo fu l’inizio della “lunga sconfitta”: la cacciata di questa materia (la filologia comparativa, e in particolar modo la filologia germanica comparativa) da quasi tutti i dipartimenti d’inglese delle università che i primi filologi avevano così utilmente contributo a fondare.15 Eppure, uno dei grandi vantaggi della filologia comparata è che può estrapolare una storia da praticamente qualsiasi cosa, anche da una singola parola, come Tolkien stesso ha affermato molto chiaramente. In una lettera a suo figlio Christopher, lodandolo per un saggio che aveva presentato su Attila e gli Unni, scrisse:
Pur tuttavia, mi sono reso conto all’improvviso di essere un filologo puro. Mi piace la storia, e mi interessa, ma i suoi momenti migliori sono per me quelli in cui getta luce su parole e nomi! Molte persone mi hanno detto (e io sono d’accordo con loro) della maestria con cui hai reso quasi vividamente presente la figura di Attila con gli occhi brillanti sul suo sofà. Eppure, stranamente, trovo che ciò che davvero mi stimola è una cosa che hai citato solo casualmente: atta, attila. Senza queste parole l’intero grande dramma della storia e delle leggende per me perde sapore. (Lettere n. 205)
Quello che Tolkien cercava di dire, e che non aveva bisogno di spiegare a suo figlio, era che nonostante Attila sia diventato sinonimo di ferocia, e sia famoso sia nella tradizione romana sia in quella nordica come oppressore dei Goti, in effetti il suo nome non è unno, bensì proprio gotico: si tratta di un nomignolo affettuoso, un diminutivo del gotico atta, “padre”, e significa perciò “piccolo padre, paparino”. A qualcuno dei Goti doveva pertanto essere simpatico! Dev’esserci stata una fazione pro-Unni tra i Goti, e l’interazione fra le due fazioni potrebbe giustificare l’esistenza di poemi come quello norreno “La battaglia dei Goti e degli Unni”, curato da Christopher Tolkien due anni dopo aver scritto il saggio sopra citato (1960). Una sola parola può quindi aprire un intero universo di possibilità storiche, o innescare idee per innumerevoli poemi e racconti, e questo sarebbe vero per centinaia se non migliaia di parole, nomi, allusioni, nel mondo moderno come in quello antico. Il nome acquisito con il matrimonio della zia di Tolkien, Jane, o l’indirizzo del suo ufficio all’università di Leeds, erano per lui altrettanto potenzialmente pregni di ispirazione del nome di Attila;16 inoltre, lui pensava che questo fosse teoricamente vero anche per qualsiasi altra persona. Il materiale sarebbe quindi virtualmente inesauribile e qualcuno potrebbe pensare che sia un vero disastro il fatto che scivoli nel dimenticatoio. Ma per aprire lo scrigno del tesoro è necessaria la chiave della filologia, e quando uno studioso è finalmente riuscito a forgiare la chiave con anni di studi, fin troppo spesso si è già dimenticato dell’esistenza del tesoro.
C’è qualche possibilità di invertire questa corrente intellettuale, che nel mondo accademico è fluita nel senso sbagliato per un centinaio di anni? Un tentativo è stato fatto negli anni ’90 da un gruppo di studiosi provenienti principalmente dai dipartimenti di francese (questo naturalmente a Tolkien avrebbe fatto rizzare i capelli all’istante) che proclamarono l’avvento della “nuova filologia” (vedi Nichols 1990, Bloch-Nichols 1996).17 La tesi dei Nuovi Filologi (tipicamente molto difficile da capire, a meno di non essere in grado di comprendere il gergo accademico del tempo) consisteva nell’affermare che «la filologia medievale è stata messa da parte dalle metodologie cognitive moderne […] mentre all’interno di questa disciplina una limitata e marcatamente anacronistica concezione della stessa rimane fin troppo attuale» (Nichols 1990: 1). In questa visione delle cose, quello che i filologi avevano fatto fino ad allora era:
stabilire una visione standard dei linguaggi, specie dei linguaggi antichi;
rivedere i testi medievali perché corrispondessero a quella visione;
eliminare tutto ciò che non concordava con essa;
e nel processo: (a) distruggere le fluttuazioni e le varianti caratteristiche della cultura del manoscritto;
(b) creare un’immagine interamente falsa, e probabilmente fallocentrica, dei Grandi Uomini e dei Grandi Poeti che avevano scritto i testi non giunti fino a noi, almeno fino a che questi non sono stati ricostruiti da redattori.
Il tormentone del movimento era: l’écriture mediévale ne produit pas de variantes, elle est variance, “la scrittura medievale non produce fluttuazione, è fluttuazione”.
C’è una parte di verità in questo. I vecchi filologi, come Tolkien, certo correggevano i testi per renderli conformi alla loro idea di buona grammatica e buon senso,18 ma le loro idee erano spesso basate sul rifiuto dei moderni linguaggi standardizzati e su una certa fascinazione (fortemente condivisa da Tolkien) per le forme non standardizzate come i dialetti.19 Erano filologi comparativi e comparare forme linguistiche era esattamente ciò che facevano. Nella Nuova Filologia era presente, inoltre, una discreta dose di politica accademica: gli studiosi coinvolti erano preoccupati di essere emarginati dai loro dipartimenti, per cui volevano proclamare di essere all’avanguardia con le “metodologie cognitive moderne” e con le teorie contemporanee, e offrivano ripetutamente l’immagine di vecchie mummie messe da parte da giovani modernisti appassionati. In altre parole, non volevano prendere parte alla “lunga sconfitta” e speravano di riuscire ad invertire le parti. Tuttavia, mi pare che i Nuovi Filologi, nell’ansia di differenziarsi dai fallimenti del XX secolo (i perdenti accademici come Tolkien) si siano in effetti dimenticati dei successi del XIX secolo (i vincenti accademici come Grimm). Si sono inoltre scordati anche di com’era in realtà la situazione prima che la vera “nuova filologia” entrasse in scena con Jacob Grimm, quando le variazioni dominavano davvero la scena editoriale e gli studiosi accettavano tacitamente di non potersi aspettare molto buon senso, o grammatica, dai poveri barbari che avevano scritto poemi come il Beowulf. Non è un caso, probabilmente, che nella Nuova Filologia vi fosse insito un vecchio elitarismo: i manoscritti sono importanti e il loro studio dovrebbe essere lasciato agli studiosi delle maggiori università, che sono i soli ad averne accesso, com’era nel XVIII secolo ad Oxford, Cambridge e Londra. Questo atteggiamento spianava la strada solo ad accademici selezionati.20 Niente di più estraneo a divulgatori naturali ed impegnati come Tolkien, i Grimm, o l’amico di Tolkien, Lewis.
C’è, quindi, una strada migliore da percorrere? In conclusione, vorrei provare a fare tre cose. Primo, vorrei ricapitolare la vita e le opere di Tolkien. Secondo, come Milton, vorrei «per l’occasione predire la rovina del nostro clero corrotto, ora all’apice del potere» e pronunciare la “Maledizione della filologia sugli studi critici”. Ed infine, vorrei passare dal ruolo di Cassandra a quello di Merlino ed immaginare, senza predire, un futuro più luminoso.
Per prima cosa, dunque, bisogna ammettere che la vita professionale di Tolkien è stata una “lunga sconfitta”, che non si è conclusa con la sua morte. Il suo amato “schema B”, lo schema filologico, è durato a Leeds fino al 1983, quando si laurearono gli ultimi otto studenti (su centocinquanta) e fu, come già detto, chiuso da me. Se il mio fantasma dovesse mai incontrare quello di Tolkien, spero che lui dica: “So che lo dovevi fare”, e io risponderei: “Ma gliel’ho fatta pagare”. Stavo portando avanti un’azione di retroguardia per salvare il salvabile, ed è questo ciò che si fa nelle azioni di retroguardia. Ma come saggiamente disse Churchill, le ritirate alla Dunkirk possono essere ottime, ma non vincono le guerre. Sul lungo termine, durante la vita di Tolkien e la mia, la letteratura e il modernismo, e poi il postmodernismo e la teoria, sono passati sopra alla povera Dama Filologia, schiacciandola completamente.
Per converso, fuori dal mondo accademico la vita di Tolkien è stata un successo trionfale, diventato ancor più grande dopo la sua morte. Non dirò nulla qui della sua popolarità, o di quella dei film di Peter Jackson, nonostante le cifre siano sbalorditive. Non sottolineerò neppure la quantità di romanzi fantasy pubblicati ora ogni anno, pochi dei quali sfuggono all’influenza di Tolkien, come è evidente già dai titoli: La compagnia del talismano, The Halfiling’s Gem,21 La pietra magica di Brisingamen, La saga dei Mallorean e così via. Uno dei motivi della scelta di questi titoli è ovviamente puro opportunismo commerciale, ma questo è interamente frutto degli editori, non degli scrittori: chiaramente, spesso gli scrittori vogliono solo immergersi nella Terra di Mezzo. E mentre altri autori cercano disperatamente di distinguere la propria opera da quella di Tolkien, essi sanno perfettamente che le loro possibilità di pubblicazione dipendono comunque da un pubblico già sensibilizzato al fantasy. Tuttavia, quello che voglio veramente sottolineare è ciò che gli autori hanno imparato da Tolkien, ossia quello che può essere riassunto in una sola parola, che non è “filologia” ma, nel caso di Tolkien, è un suo prodotto. Oggi tutti gli autori di fantasy sanno che un’opera deve avere la “profondità”. Bisogna avere una mappa, come la mappa di Earthsea di Ursula Le Guin. Bisogna trovare un modo di generare nomi che siano allo stesso tempo strani e coerenti, come ha fatto Stephen Donaldson e, ancor più di lui, il grande Jack Vance.22 Si possono basare intere opere sull’etimologia, come ha fatto Avram Davidson , l’unico autore che ho incontrato che effettivamente cita frammenti di antico osco (o forse umbro) in un’opera destinata ad un pubblico popolare, il suo romanzo Peregrine: Secundus (1981). Similmente strano è l’uso che fa Philip José Farmer dell’Yiddish medievale nella sua opera fantasy/fantascientifica Il fabbricante di universi (1965). Inoltre, è sempre consigliabile recuperare, ove possibile, le fonti originali dei racconti popolari. Sospetto che Micheal Swanwick, autore di La figlia del drago di ferro (1993), opera brillante, sia andato indietro, prima di Tolkien, a leggere l’opera ottocentesca nella quale è usata per la prima volta la parola “hobbit”, The Denham Tracts: Swanwick prende la sua lista di strane specie di elfi e goblin dalla stessa lista di “hobbit”. Insomma, oggi è largamente riconosciuto, almeno tra gli scrittori se non tra i “misologi”, che la filologia dona profondità alle opere, e la profondità fa vendere libri.
Non possiamo quindi non vedere un profondo divario fra la disfatta professionale di Tolkien e il suo trionfo popolare. Passando ora al trionfo accademico di modernismo, postmodernismo, ecc. possiamo notare che tutto questo successo accademico è stato accompagnato da un corrispondente fallimento popolare. Negli USA il numero di studenti che si laureano in discipline umanistiche è crollato drasticamente a poco più di un terzo di quanto ci si sarebbe potuti aspettare se le discipline umanistiche avessero mantenuto la stessa quantità di studenti, in proporzione, di quanti ne attraevano negli anni della morte di Tolkien.23 Il crollo ha proporzioni simili per gli studi di inglese, e qui vi è un potenziale peggiore disastro in futuro. Negli Stati Uniti i dipartimenti di inglese dipendono per il budget dal gran numero di studenti che seguono i “corsi base” di scrittura, normalmente chiamati “retorica e composizione”. Ma il punto debole di tutti i corsi di “retorica e composizione” consiste nel fatto che gli studenti laureati che li tengono, tutti provenienti da corsi di inglese per non laureati, non conoscono nulla di utile sul linguaggio, che si parli di storia del linguaggio o di linguaggi moderni, per cui passano la maggior parte del tempo ad inculcare negli allievi nozioni essenzialmente settecentesche di “inglese corretto”, ossia regole come: non iniziare le frasi con una congiunzione o non concluderle con una preposizione, e così via.24 Troppo spesso, il solo metodo analitico che conoscono è l’arcaica nozione di “diagrammare le frasi”, al quale sia i Grimm sia Tolkien avrebbero guardato con incredulità, e che comunque molti degli studenti non sanno applicare. Un giorno un rettore dirà: “non c’è alcun ‘valore aggiunto’ qui, ho visto le ‘valutazioni dei risultati’ e assegnerò gli insegnamenti base a qualcuno che li sa condurre in modo migliore”, come i dipartimenti di Scienze della comunicazione. Se questo passaggio avrà successo e sarà seguito da altri, allora gli studi di inglese (o come li avrebbe chiamati Tolkien, la “letteratura”) regrediranno alla condizione sminuita in cui versano ora, per esempio, gli studi classici.25 Pagheranno lo scotto di aver esiliato dal proprio curriculum tutti gli studi seri sul linguaggio. La mortale maledizione di Dama Filologia, o forse quella del grande drago Filologia Comparativa, avrà allora fatto effetto.
Rivolgendomi ora al futuro, vorrei dire che se dovessimo ricominciare da capo con gli studi di inglese, il primo requisito sarebbe includere nei corsi base di “retorica e composizione” una versione aggiornata di grammatica strutturalista dell’inglese moderno: questa sarebbe infatti molto utile agli studenti nelle loro vite e carriere, e inoltre fornirebbe la base necessaria per una storia filologica dell’inglese (e di tutti i linguaggi collegati) in tutti i periodi. Sarebbe davvero interessante e, chi lo sa, questa nuova disciplina potrebbe andare abbastanza lontano da riuscire ad avvicinarsi allo studio della letteratura con una nuova teoria capace di comprendere anche opere fantasy, perfino opere apprezzate dal grande pubblico! Ma a questo punto ho paura che io stia guardando nello specchio di Galadriel, o forse lo specchio delle streghe di Macbeth, e questo, come ben sappiamo, può mostrare molte cose, anche quelle che non accadranno mai.
[traduzione di Cristina Arnaboldi e revisionata da Alberto Ladavas del saggio Fighting the Long Defeat tratto dal libro Roots and Branches, con l'autorizzazione di Tom Shippey]
BIBLIOGRAFIA
Lettere: La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, a c. di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien, Bompiani, Milano 2004.
LH: Lo Hobbit annotato, a c. di Douglas A. Anderson, Bompiani, Milano 2004.
MF: Il medioevo e il fantastico, a c. di Christopher Tolkien, Luni Editrice, Milano 2000.
SDA: Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2003.
WR: The War of the Ring, a c. di Christopher Tolkien, HarperCollins, Londra 2002.
Bloch, Howard e Stephen G. Nichols (1996), a c. di, Medievalism and the Modernist Temper, Princeton University Press, Princeton, NJ.
Busby, Keith (1993), a c. di, Essays on the New Philology, Rodopi, Amsterdam.
Carpenter, Humphrey (1991), La vita di J.R.R. Tolkien, Edizioni Ares, Milano.
Delbanco, Andrew (1999), “The Decline and Fall of Literature”, New York Review of Books 48.17, novembre 4, 32-8.
Drout, Michael C. (2007), J.R.R. Tolkien Encyclopedia: Scolarship and Critical Assessment, Routledge, Londra e New York.
Gee, Henry (2004), The Science of Middle-earth, Cold Spring Press, Cold Spring Harbor, NY.
Grimm, Jacob and Wilhelm (1999), Deutsches Worterbuch; originariamente 16 voll. 1854-1960, ristampato in 33 voll.; Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco.
Gross, Michael (1999), “Lewis and Cambridge”, Modern Philology n. 96, 439-84.
Haigh, Walter E. (1928), A New Glossary of the Dialect of the Huddersfield District, Oxford University Press, Londra.
Hanson, Victor D., John Heath e Bruce S. Thornton (2001), Bonfire of the Humanities, ISI Press, Wilmington, DL.
Menand, Louis (2001), “College: The End of the Golden Ages”, New York Review of Books 48.16, ottobre 18, 44-7.
Nichols, Stephen G. (1990), a c. di, “The New Philology”, Speculum n. 65/1, 1-108.
Shippey, Tom (1997), recensione di Medievalism and the Modernist Temper, a c. di Howard Bloch e Stephen Nichols, Johns Hopkins University Press, Baltimora e Londra 1995, in Envoi 6.2 (Autunno), 161-70.
Shippey, Tom (2005a), “A Revolution Reconsidered: Mytography and Mythology in the Nineteenth Century” in The Shadow-walkers: Jacob Grimm’s Mythology of the Monstrous, a c. di Tom Shippey, Arizona Center for Medieval Studies, Tempe 2005, pp. 1-28.
Shippey, Tom (2005b), La via per la Terra di Mezzo, Marietti 1820, Milano-Genova.
Questo saggio è stato pubblicato nel volume Roots and Branches (Walking Tree Publisher, Zollikofen 2007) ed è basato su una conferenza dal medesimo titolo tenutasi all’Università della Georgia il 5 novembre 2002. Il ringraziamento dell’autore va al suo ospite, il Dott. Jonathan Evans, per l’invito e per le innumerevoli interessanti conversazioni avute durante gli anni.
Questa raccolta di poesie fu pubblicata all’Università di Londra da un ex studente di Tolkien che ne aveva conservato delle copie risalenti al suo periodo di studi a Leeds. Nella pagina dell’indice la poesia è intitolata “Two Little Schemes” [Due piccoli schemi], ma nel testo diventa “Lit. and Lang.” [Letteratura e Lingua].
OED, prima edizione del 1933, VII: 778, ripubblicato con un piccolo ampliamento della definizione 3 nel 1989, seconda edizione, XI: 684.
Henry Gee, un vero scienziato, fa notare che la nuova disciplina scientifica della “cladistica” è essenzialmente identica all’antica pratica filologica della “stemmatica”. Entrambe si occupano di creare ordine da “informazioni deteriorate” (vedi Gee 2004: 36-9, 147, 152-3).
Si vedano i saggi “Grimm, Grundtvig, Tolkien” e “History in Words” pubblicati nel volume Roots and Branches (op. cit.) e più ampiamente Shippey 2005a.
Dwimmerlaik è il termine utilizzato da Éowyn per indicare il Signore dei Nazgûl durante la Battaglia dei Campi del Pelennor. Christopher Tolkien (WR 372) riferisce che la parola dwimmerlaik significa “illusione, spettro” e deriva dall'anglosassone (ge)dwimer “fantasma, spettro” e da laik, modernizzazione della desinenza norrena -leikr corrispondente all'anglosassone -lac e utilizzata principalmente per creare sostantivi astratti. (N.d.T.)
Si vedano i saggi “Tolkien and the Gawain-Poet”, “Heroes and Heroism” e “History in Words” nel volume Roots and Branches (op. cit.).
Il primo curatore del Beowulf, Grímur Thorkelin, non si accorse che il poema inizia con un funerale, in parte perché confuse il nome Scyld con il verbo sceolde, “dovrebbe”, comune in inglese antico. Ritenne che la differenza nella scrittura delle due parole fosse solo una variazione casuale.
Anche Smaug è un verbo forte di Classe 2, essendo il suo nome la forma passata di smjuga, “strisciare, penetrare”, in norreno, quindi “egli strisciò”. Se fosse stato un drago di lingua antico inglese, il suo nome sarebbe stato Sméah, dal verbo in antico inglese smúgan. Il vero nome di Gollum, Sméagol, ha la stessa radice, ma potrebbe derivare dal verbo debole corrispondente sméagan, “chiedere”, e potrebbe quindi diventare Slinker, “furtivo” (come lo vede Sam Gamgee), o Snooper, “curiosone”. Si veda inoltre Lettere n. 25 in cui Tolkien fornisce il verbo nella sua forma in “germanico comune”, ovvero nella forma ancestrale sia dell’inglese antico sia del norreno.
Le testimonianze orali di chi ha assistito alle conferenze suggeriscono che raramente, o forse in nessun caso, sia riuscito ad arrivare fino a quel punto.
Come sembra suggerire Tolkien, in forma allegorica, attraverso la strigliata di Alf a Nokes nell’opera Il Fabbro di Wotton Major; si veda il saggio “Allegory versus Bounce” nel volume Roots and Branches (op. cit.).
Si vedano i saggi “Heroes and Heroism” e “Tolkien and the Gawain-Poet” nel volume Roots and Branches (op. cit.).
È giusto ricordare che ci fu immediata resistenza da parte di altri studiosi di francese, si veda Busby 1993.
Si veda il saggio “A look at Exodus and Finn and Hengest” nel volume Roots and Branches (op. cit.).
Come mostrato dalla riconoscente “Prefazione” di Tolkien a Haigh 1928; si veda inoltre la voce su A New Glossary of the Dialect of the Huddersfield District in Drout 2007.
Letteralmente “La gemma del mezzuomo”, pubblicato in Italia col titolo Le lande di fuoco. (N.d.T.)
Guardo con particolare ammirazione alla sua “Trilogia di Lyonesse”, Lyonesse (1983), La perla verde (1985), Madouc (1989).
Si veda Menand 2001 per le cifre. Delbanco 1999 analizza la situazione dei dottorati in letteratura inglese.
Ho sentito molto riguardo questo argomento durante una discussione tra insegnanti di inglese giusto il giorno prima che questo testo fosse scritto, nell’ottobre 2006. La discussione era però guastata dal fatto che nessuno dei disquisenti avrebbe saputo distinguere una preposizione da una congiunzione.