Recensione di Tradurre Tolkien, di Marcantonio Savelli (Lucca, La Vela, 2020)
di Adriano Bernasconi
Ho trovato piacevole e certamente arricchente la lettura di questo saggio, recentemente uscito per le edizioni La Vela, nel quale Marcantonio Savelli mette a confronto la nuova traduzione di Ottavio Fatica del Signore degli Anelli con quella “storica” di Vittoria Alliata di Villafranca (alla quale contribuì – soprattutto per le parti poetiche, le appendici, la nomenclatura – Quirino Principe). Savelli, scrittore e studioso di filosofia e letteratura medievale, aveva precedentemente pubblicato un articolo a riguardo proprio sulle pagine di questa rivista (A proposito di una recente traduzione italiana de La Compagnia dell'Anello; Endòre numero 22).
Nella prima parte del saggio egli confronta interi capitoli del testo originale di Tolkien con le due traduzioni italiane: Concerning Hobbits, A Long-Expected Party e The Mirror of Galadriel – nonché la celeberrima “Poesia dell’Anello”. Successivamente si dedica invece ad approfondire il modo con cui un personaggio cruciale dell’opera, ossia Gandalf, viene “trattato” nelle due traduzioni, analizzando il suo lessico e il suo modo di esprimersi. Nell’ultima parte del libro (Il confine tra interpretazione e mistificazione) Savelli espone le sue riflessioni sulla traduzione in generale, sul tradurre Tolkien nello specifico e s’interroga sulle ragioni che hanno portato il nuovo traduttore, Ottavio Fatica, a compiere talune scelte controverse.
Avendo io stesso svolto un lavoro analogo a quello di Savelli – seppur assai meno approfondito e su un campione di testo molto meno esteso – lo scorso anno per il mio articolo apparso sul numero 22 di Endòre, non posso che apprezzare il grande sforzo che l’autore di questo saggio ha compiuto, mettendo in campo una pazienza certosina ed una grande competenza linguistica, soffermandosi su singoli termini e scelte lessicali e “spaccando il capello in quattro” per dimostrare come, sotto la superficie di una traduzione sbandierata come “più fedele” e “con molti meno errori della precedente”, la versione di Fatica sia invece ricca di incongruenze, travisamenti, scelte infelici.
Sono infatti innumerevoli gli esempi che Savelli riporta per dimostrare come le esternazioni rilasciate da Ottavio Fatica in occasione dell’uscita della sua traduzione della Compagnia dell’Anello, esternazioni che accusavano la precedente traduzione di Alliata di essere piena di errori e infedele al testo tolkieniano («Ecco, bisognava pur rendersi conto che non era possibile correggere cinquecento errori a pagina per millecinquecento pagine. Non c’è paragrafo mondo da lacune e sbagli. Mancano verbi, avverbi, intere frasi, a volte si traduce a orecchio. Alliata toglie spesso l’inciso, che significa pur qualcosa, dà sfumatura al personaggio. Invece, aggiunge spiegazioni su spiegazioni. Diventa una parafrasi, decisamente brutta. Inoltre ha un suo curioso stilema: raddoppia gli aggettivi. Placido e tranquillo, rapido e veloce, misero e magro, crudeli e maligni dove l’originale era ‘feroci’. Sembra uno stilema di Tolkien, invece è il suo»), siano quantomeno inappropriate, laddove non proprio mendaci.
Umberto Eco, nel suo bel saggio Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (Bompiani, 1992), sosteneva che qualunque forma di traduzione fosse, di fatto, una negoziazione che il traduttore compie ben consapevole che la sua opera sarà sempre in qualche modo imperfetta e manchevole rispetto all’originale. Ciò è vero nella prosa e ancor di più nei testi poetici: è letteralmente impossibile mantenere al contempo struttura metrica, struttura rimica, figure retoriche, sonorità e musicalità del testo, significato e contenuto dei versi. Pertanto il traduttore è obbligato a scegliere, ad operare dei compromessi e a decidere, infine, quale sia il nucleo fondamentale dell’opera che sta traducendo e quale sia il modo migliore per trasporre nella lingua di arrivo (nel nostro caso l’italiano) quel nucleo fondamentale, mantenendo quanto più è possibile di tutte le stratificazioni e di tutte le sfumature che la lettura del testo originale potevano essere recepite dal lettore (nel nostro caso anglofono). Lo stesso Eco affermava che tra i sinonimi di “fedeltà” nel dizionario non c’è “esattezza”; piuttosto vi sono “lealtà”, “onestà”, “rispetto”, “pietà”.
La dettagliata analisi di Marcantonio Savelli spiega, con dovizia di particolari, come la traduzione di Alliata e Principe fosse attenta ai diversi registri linguistici e azzeccasse le traduzioni di termini aulici e arcaizzanti, laddove invece quella di Fatica tende a confondere l’aulico con il tecnico, inserendo parole come “multistrati”, “postprandiale”, “intronizzato” o “matricina” (che stonano col contesto della Terra di Mezzo) e travisa personaggi fondamentali come quello di Gandalf, utilizzando per lui un registro fin troppo colloquiale e sopra le righe, con espressioni quali “sciropparsi”, “prendere il largo”, “bailamme”, “prendere a mazzate”, ecc. che non trasmettono affatto la gravità di certi momenti, abbassano la qualità generale del testo e cozzano terribilmente con l’incomprensibile trasmutazione di termini quotidiani in parole ben più auliche e ricercate che avviene altrove nella stessa traduzione.
Concordo con quanto dimostrato da Savelli e mi sento di rimarcare, ancora una volta, come proprio nelle parti poetiche si noti maggiormente l’inferiore qualità di questa nuova traduzione rispetto a quella precedente.
Credo che chiunque voglia oggi sostenere la nuova traduzione di Fatica a scapito di quella di Alliata dovrebbe entrare nel merito di quanto evidenziato da questo saggio e confutare, punto per punto, le tesi che vi sono esposte. Così, forse, emergerebbero subito come false e pretestuose boutade quale quella dei “cinquecento errori a pagina”, giustamente ridicolizzata da Quirino Principe nella sua ironica e arguta introduzione al saggio: con le sue 1359 pagine il testo finirebbe per contare 679.500 errori, un “coefficiente di densità di errore” tale da renderlo incomprensibile… come ha potuto allora essere compreso (e apprezzato) negli ultimi cinquant’anni da migliaia di lettori italiani? Come ha potuto essere usato come riferimento dagli adattatori del doppiaggio italiano dei film? Un vero paradosso!
Se qualcosa rimane ancora da approfondire, in tutta questa vicenda, sono a mio avviso proprio le ragioni editoriali che sottostanno alla scelta di Bompiani di ordinare una nuova traduzione del Signore degli Anelli. Avere diverse traduzioni dello stesso tempo mi pare tutto fuorché un male: permette di confrontarle, di studiarle, di criticarle e permette a futuri traduttori di avere una storia delle traduzioni di quel testo in italiano alla quale potersi riferire.
Faccio un esempio recente: fino al 2020 la Mondadori era l’unica casa editrice italiana a detenere i diritti delle opere di George Orwell, pertanto il suo celeberrimo 1984 veniva pubblicato esclusivamente dalla casa editrice di Segrate. Tuttavia in circolazione esistevano (ed esistono) diverse traduzioni del testo, tutte edite da Mondadori: quella di Stefano Manferlotti (Oscar Moderni 2016), quella di Manferlotti e Brogli (Oscar Junior 2016), quella di Nicola Gardini (Oscar Moderni Cult 2019), oltre alla traduzione “storica” di Gabriele Bandini del 1950.
Invece Bompiani sceglie di ritirare dal commercio tutte le versioni precedentemente pubblicate della traduzione di Alliata e di lasciare quella di Ottavio Fatica come unica traduzione italiana disponibile, laddove invece persino della saga di Harry Potter edita da Salani continuano a convivere, fianco a fianco, la versione di Marina Astrologo e Beatrice Masini (vecchia traduzione, pre-2011) e quella di Stefano Bartezzaghi (nuova traduzione, post-2011).
Perchè Bompiani non ha fatto così, come per 1984 ed Harry Potter? Quale Fedeltà Ideologica glielo ha impedito?
Sarebbe forse buona cosa fare luce su questa scelta editoriale e soprattutto sul perché Ottavio Fatica sia stato ritenuto il candidato migliore per tradurre l’opera tolkieniana.