Orchi, spettri e creature: Immagini del Male in Tolkien1



di Tom Shippey

Uno dei momenti ironici meno notati, ma più significativi del Signore degli Anelli capita quasi alla fine delle Due Torri, nel capitolo “Messer Samvise e le sue decisioni”. Sam, portando al dito l’Anello preso dal corpo all’apparenza morto di Frodo, ascolta la conversazione dei due capitani orchi, Shagrat di Cirith Ungol e Gorbag dalla Torre di Minas Morgul – una delle sei occasioni nel Signore degli Anelli in cui udiamo parlare gli orchi. Gorbag prova a convincere Shagrat che Frodo non può essere il solo intruso presente: qualcun altro deve aver tagliato le corde sul suo corpo e infilzato Shelob. “Direi che si tratta di un grande guerriero, probabilmente d’un Elfo (…)”. Questo qualcun altro, questo “grande guerriero” (in verità lo stesso Sam) è il vero pericolo, e “il piccoletto”, Frodo, pare essere relativamente insignificante. “Non mi sembra che il grosso guerriero dalla spada tagliente gli attribuisse molto valore… Lasciarlo lì per terra: un tiro tipicamente elfico” (vedi Il Signore degli Anelli, Milano, Bompiani, 2003, d’ora in poi SDA; pg. 804) .

Non è possibile equivocare la disapprovazione percepibile nelle ultime tre parole di Gorbag. Come per altri personaggi nel Signore degli Anelli (e non tutti dalla parte di Sauron), “elfico” è per lui un peggiorativo. È chiaro che ritiene abbandonare un compagno un’azione spregevole e anche caratteristica della parte avversa. E tuttavia solo una pagina dopo un tale comportamento è esattamente ciò che caratterizza la sua propria parte. Shagrat risponde alle argomentazione di Gorbag dicendo “c’è un sacco di cose che non sai”, e una delle cose che il capitano di Morgul non sa è che una puntura di Shelob non è necessariamente fatale (SDA, pg. 805): “

Lei ha più di un veleno. Quando caccia dà solo un colpetto nel collo e le vittime cadono molli come pesci disossati e allora lei ci gioca come le pare e piace. Ti ricordi il vecchio Ufthak? L’avevamo perso di vista da parecchi giorni. Poi lo trovammo in un angolo; penzolava dal soffitto, ma era sveglio e furente. Che risate! Forse Lei l’aveva dimenticato, ma ci guardammo bene dal toccarlo …: non è il caso di impicciarsi dei Suoi affari.

Un tiro tipicamente orchesco, verrebbe da dire, abbandonare un compagno ad una morte particolarmente orribile e pienamente consapevole, e per di più riderci sopra e aspettare che altri condividano la risata. Si potrebbe ribattere che uno è l’orco che condanna l’abbandonare i compagni e un altro quello che lo pratica, ma in questo caso almeno Shagrat e Gorbag sembrano condividere lo stesso atteggiamento. Shagrat non trova nulla di sbagliato nell’uso del termine “elfico” da parte di Gorbag, e Gorbag non ha nulla da ridire sul senso dell’umorismo di Shagrat.

Questo momento ironico minore, inoltre, esplicita un concetto che è ripetuto più e più volte nelle conversazioni tra orchi che udiamo, e che era, nelle sue più generali implicazioni, sufficientemente importante per Tolkien da essere sottolineato in molte occasioni. Può essere esposto molto semplicemente, sebbene le sue implicazioni si articolino poi in maniera alquanto complessa (e siano costate a Tolkien un bel po’ di preoccupazione negli ultimi anni). In breve, quello che l’episodio con Shagrat e Gorgbag rivela è che gli orchi sono creature morali, con una moralità di base molto simile alla nostra. Ma se questo è vero, sembra che una moralità di base non abbia alcuna ricaduta sull’effettivo comportamento. In che modo, dunque, una teoria del bene e del male essenzialmente corretta viene a corrompersi? Se uno parte da una solida base morale, come può avvenire che le cose vadano così disastrosamente per il verso sbagliato? Non ci dovrebbe essere bisogno di dimostrare che questa è una delle domande cruciali poste con particolare forza nel secolo ventesimo, un secolo durante il quale le peggiori atrocità sono state spesso commesse dai popoli più civilizzati. Tolkien merita credito per aver notato il problema, e per aver rifiutato di far finta di nulla, come invece hanno fatto molti degli scrittori a lui contemporanei.

L’atteggiamento complessivo di Tolkien verso il problema degli orchi nel Signore degli Anelli è chiaro e ortodosso. In vari punti del testo egli sostiene che il male non ha potere creativo.2 “Scimmiotta”, non “crea”. Barbalbero lo dice a Merry e Pipino mentre gli Ent marciano su Isengard (SDA, pg. 536), e Frodo lo ripete a Sam mentre si preparano a lasciare la Torre di Cirith Ungol (SDA, pp. 986-987):

Non credo che [l’Ombra] abbia generato gli orchi; non fece che rovinarli e depravarli, e se devono vivere, devono nutrirsi come gli altri esseri viventi. Useranno acque malsane e cibi malsani, se non trovano altro, ma non veleno; mi hanno nutrito, e in ciò sono più fortunato di te. Dev’esserci dell’acqua e del cibo da qualche parte in questa fortezza.

Gli orchi non possono vivere di veleno e non possono vivere sulla base di una completa amoralità: sebbene naturalmente né il loro cibo, né il loro senso morale possano essere qualcosa di condivisibile. L’importanza di queste affermazioni nette e inequivoche, inoltre, è sviluppata diffusamente in varie occasioni da C.S. Lewis (uno scrittore assai più discorsivo di Tolkien), in una maniera sulla quale il suo amico non avrebbe trovato sostanzialmente nulla da obiettare. Nelle sue molte difese della Cristianità, Lewis si preoccupò diverse volte di ripetere le argomentazioni contro il Dualismo o Manicheismo, un’antica eresia per la quale evidentemente provava una certa simpatia (la vedeva riemergere nella mitologia eroica della Scandinavia), ma che egli allo stesso tempo riteneva, sorprendentemente, come pericolosa, perché troppo capace di riviviscenza.3 Ma, sostiene Lewis in Mere Christianity (London, Fontana, 1955; pp. 45-46; trad. it. Il Cristianesimo così com’è), questa vecchia eresia in ultima analisi non ha senso. A nessuno “piace la cattiveria in quanto tale (…), solo perché è cattiva.” Chi l’apprezza lo fa perché ne ottiene qualcosa, che sia la gratificazione sensuale (nel caso dei sadici), o qualcosa d’altro, “denaro, o potere, o sicurezza.” Ma quest’ultime cose sono tutte cose buone in sé stesse. La malvagità è sempre, secondo Lewis, “la ricerca di qualcosa di buono nel modo sbagliato.” Ma poiché “la bontà esiste, per così dire, di per sé stessa”, mentre “la cattiveria è solo bontà rovinata”, allora ne consegue che le due uguali e opposte potenze della visione Dualista non possono esistere. Il potere malvagio, l’Oscuro Potere in cui Lewis credeva seriamente, doveva essere un errore, una corruzione, non una forza indipendente ed autonoma.

Questa opinione, naturalmente, la ritroviamo solidamente incorporata nell’intera mitologia di Tolkien.4 Ma il punto cruciale, all’atto pratico e invero per la comprensione del mondo contemporaneo di Tolkien e Lewis, dev’essere stato (e ancora dev’essere) il problema di come questa antica e mitologica corruzione possa manifestarsi nella vita quotidiana. Molta della reputazione di Lewis deriva dall’acutezza con cui mette in relazione la speculazione teologica con quella che si potrebbe chiamare la “psicopatologia della vita di tutti i giorni”5 come, per esempio, nelle Screwtape Letters6 (un’opera dedicata a Tolkien). Tolkien non tentò di competere con lui su questo terreno. Ma si possono riscontrare certi paralleli con Lewis, e un certo atteggiamento comune agli Inklings riguardo al problema del male, anche del male nella vita quotidiana, se si guarda alle immagini di esso in Tolkien, che sono profondamente originali e stimolanti: non solo ai personaggi malvagi come Sauron e Saruman, ma al male generico, rappresentato sotto forma di orchi, di spettri, di creature.

Tanto per ripetersi, ci sono sei conversazioni fra orchi nel Signore degli Anelli, e in tutte si fanno affermazioni molti simili e coerenti. Gli orchi sono caratterizzati prima di tutto da un forte senso dell’umorismo. Quasi la prima cosa che Pipino nota quando rinviene, nel capitolo “Gli Uruk-hai”, (il brano più lungo di conversazioni orchesche) è un orco che ride dei suoi sforzi per liberarsi. Gli orchi ridono nuovamente quando Uglúk lo alza da terra afferrandolo per i capelli e “gridano” per il divertimento quando Merry si divincola e urla per la medicina che gli dà Uglúk. Nei loro discorsi essi fanno battute in continuazione, da quella della guarda dalle fauci gialle: “Stai fermo, o ti farò il solletico col mio coltello” (enfasi mia), al “Non è capace di prendere la sua medicina” degli orchi che osservano il dimenarsi di Merry, alla risposta sarcastica di Uglúk alla domanda degli orchi del Nord: “Continueremo a correre. (…) Cosa credete? Di poter sedere sull’erba e aspettare che i Pellebianca si uniscano alla scampagnata?” (SDA, pp. 493, 497). Parole frequenti in bocca agli orchi sono “spasso”, “gioco”, “divertimento”. C’è una gioco di parole tipicamente orchesco nell’adattamento proverbiale che fa il caposquadra aguzzino verso la fine del capitolo “La Terra d’Ombra: “Ecco!” rideva, schioccando la frusta vicino alle loro gambe, “Dove c’è una frusta c’è una volontà, lumaconi miei!”1 (SDA, pg. 1005). Naturalmente per gli orchi il “divertimento” solitamente deriva dalla tortura, le loro battute sono aggressive e sarcastiche, e la loro ilarità proviene dal vedere gli altri (inclusi i loro compagni, come “il vecchio Ufthak”) sofferenti o indifesi. Ma tutte queste sono componenti anche dell’umorismo umano, per quanto uno possa essere restìo ad ammetterlo. Persino gli hobbit lo capiscono quanto basta per parteciparvi, come fa Merry col suo spavaldo: “Dove sono il letto e la prima colazione?” (SDA, pg. 497). Gli orchi possono ben essere in basso, o addirittura fuori, della scala dell’accettabilità umoristica, ma è la stessa nostra scala: e l’umorismo è, in conformità con l’opinione di Lewis espressa sopra, una qualità buona in sé stessa, sebbene tutte le buone qualità possano essere pervertite.

Gli orchi sono infatti del tutto disposti ad usare il termine “bene”, come fa l’uruk caposquadra. Al proverbio fa seguire la minaccia: “Riceverete tante frustate quante ne potrà sopportare la vostra pelle quando vi vedranno arrivare tardi al vostro accampamento. Vi farà bene. Non sapete che siamo in guerra? (SDA, pg. 1005, enfasi mia). Quando l’orco di Mordor Grishnákh si riunisce alla compagnia di Uglúk nel capitolo “Gli Uruk-hai”, anche lui afferma che, sebbene non gli possa importare meno di Uglúk, “ci sono dei ragazzi in gamba ch’è un peccato perdere. Sapevo che li avresti messi nei guai. Sono tornato ad aiutarli.” (SDA, pg. 500). Grishnákh sta mentendo, naturalmente – è tornato per cercare l’Anello – ma è il tipo di cose che dicono gli orchi, e non sempre mentono. Gli orchi, infatti, attribuiscono teoricamente un grande valore alla fiducia reciproca e alla lealtà. “Ribelle” è un altro dei loro termini peggiorativi, usato sia da Shagrat (parlando di Gorbag in “La Torre di Cirith Ungol”) che dal soldato orco nei confronti dell’orco esploratore nel capitolo “La Terra d’Ombra”. Snaga dice a Shagrat: “Ho combattuto per la Torre contro quei puzzolenti ratti di Morgul”, il ché che mostra una sorta di limitata lealtà (SDA, pg. 978); un’altra parola favorita degli orchi è “ragazzi”, una parola che implica amicizia virile e sano cameratismo. Gorbag propone a Shagrat “se dovessimo avere l’occasione, tu e io, di svignarcela e metterci su per conto nostro con pochi ragazzi affidabili” (SDA, pg. 802); “che i ragazzi giochino pure!” dice Shagrat poco prima (SDA, pg. 801); circondato dai Cavalieri di Rohan, Uglúk dice ai suoi compagni che c’è una cosa che i Cavalieri non sanno: “Mauhúr e i suoi ragazzi sono nella foresta, e dovrebbero spuntare da un minuto all’altro” (SDA, pg. 504). Occorre sottolineare che mentre Gorbag e Shagrat presto vengono ai ferri corti e il loro ideale di essere “affidabili” è immediatamente posto sotto una luce ironica dal fatto che (come dice Shagrat): “Non mi fido di tutti i miei ragazzi e di nessuno dei tuoi; e nemmeno di te, quando ti prende la mania del divertimento” (SDA, pg. 806), ciò non di meno Mauhúr e i suoi ragazzi si fanno effettivamente vivi e cercano sul serio di portare soccorso. Gli orchi, per di più – per dire di loro il meglio che si può – comprendono il concetto di tregua per parlamentare, come nel capitolo “Il Fosso di Helm”, e obbediscono persino alle regole di guerra con il loro avvertimento: “Scendi o ti abbatteremo con le nostre frecce” (SDA, pg. 594). Gli orchi di Saruman mostrano un orgoglio di gruppo nella loro vanteria, più volte ripetuta, “Noi siamo gli Uruk-hai combattenti.” Sebbene sembra che tutti gli orchi mangino carne umana, essi non lo considerano cannibalismo, ma riservano questa accusa agli orchi che mangiano altri orchi; da qui l’accusa di Grishnákh: “Che impressione vi fa, amici [rivolto agli orchi del Nord], esser chiamati porci dai raccatta-letame di un piccolo e sporco stregone? È carne di orchi quella che mangiano, ci giurerei” (SDA, pg. 495).

Sarebbe noioso mostrare in che modo tutte queste affermazioni sono sistematicamente smentite o viste con ironia, come nella scena di Ufthak menzionata sopra. Ma il punto rimane: gli orchi riconoscono l’idea di bene, apprezzano l’umorismo, danno valore alla lealtà, alla fiducia, alla coesione del gruppo e all’ideale di una causa superiore rispetto a loro stessi e condannano gli altri quando non sono all’altezza di questi ideali. E dunque, se riconoscono ciò che è giusto, come può avvenire che essi persistano nell’ingiusto? La domanda diventa ancora più pressante per il fatto che il comportamento orchesco è del tutto chiaramente anche il comportamento umano. Questa affermazione potrebbe venir elaborata anche a partire dal solo Signore degli Anelli, ma essa è confermata da Tolkien nell’ “approfondito saggio sull’origine degli orchi” inserito in Morgoth’s Ring7, da quella che Christopher Tolkien definisce come “l’opinione definitiva di mio padre sulla questione: gli orchi sono generati dagli Uomini”.8 Molto prima di questo saggio, tuttavia, (nello Hobbit, pg. 59)9, Tolkien aveva stabilito una connessione tra i goblin descritti nel libro e gli agenti del “progresso” tecnologico nella storia umana; e sebbene diventasse sempre più preoccupato riguardo alle implicazioni degli orchi nelle sue storie e provasse differenti spiegazioni per la loro esistenza, la loro analogia con l’umanità rimase sempre chiara.10 L’urlo del caposquadra uruk: “Non sapete che siamo in guerra?” è anche quello che quasi tutti gli europei del primo ventesimo secolo devono aver sentito nella vita quotidiana, in ogni lingua e anche troppe volte. Ma se gli orchi rappresentano solo una forma esagerata, ma riconoscibile di comportamento umano, la questione rimane: nella realtà, come fanno le persone a diventare così?

Il problema del processo di corruzione in ciò che in origine era buono sembra essere stato un argomento di discussione fra gli Inklings, che lo affrontarono sia dal punto di vista teologico che da quello mitologico (come in Mere Christianity o nel Signore degli Anelli), ma anche in termini esplicitamente umani, in quest’ultimo caso soprattutto ad opera di Lewis. Il terzo volume della sua trilogia “spaziale”, That Hideous Strength (trad. it. Quell’orribile forza), sembra spesso, in effetti essere la traduzione in ambientazione più realistica di quello che Tolkien veniva descrivendo in un contesto fantastico: si potrebbe persino dire, simultaneamente descrivendo, perché sebbene Quell’orribile forza sia stato pubblicato nove anni prima del Signore degli Anelli, nel 1945, Lewis è sempre stato molto più celere nelle pubblicazioni rispetto al suo amico, ed entrambe le opere erano in gestazione nello stesso periodo; un periodo, per di più, durante il quale i due autori erano costantemente in contatto.11 Sia come sia, uno può interpretare la morte di Frost l’arci-materialista, alla fine del capitolo 16 del libro di Lewis, come il tentativo di scrivere un resoconto di qualcosa che, per un umano, potesse essere analogo al venir tramutato in pietra per un troll. All’inizio del capitolo 6, il linguaggio di Wither, l’incredibilmente tetro vice-direttore della N.I.C.E. (National Institute for Co-ordinated Experiments), ha delle forti analogie con quello di Saruman. E tornando agli orchi, nel romanzo di Lewis c’è una conversazione tipicamente orchesca fra due umani, Len e Sid, che trovano l’orso Mr Bultitude nel capitolo 14. Stanno infatti cercando animali per gli esperimenti della N.I.C.E., sanno che non possono prendere questo animale, né sono stati mandati a catturarlo, ma ciò nonostante lo narcotizzano e lo rubano. La loro conversazione segue esattamente la stessa linea della retorica orchesca della cooperazione che maschera la diffidenza e la paura reciproca, così come il loro pesante uso dell’umorismo sarcastico (sebbene reso in maniera meno realistica, alla pari di ciò che accade in Tolkien, dal rifiuto di Lewis di permettere il turpiloquio):

Davvero un bel compagno sei” disse Len, frugando in un pacchetto bisunto [cercando qualcosa da drogare, avendo Sid rifiutato di lasciargli usare la sua cena], “È una buona cosa per te che io non sia il tipo di persona che abbandona gli amici”. “Lo hai già fatto”, disse il guidatore [Sid]. “Conosco tutti i tuoi giochetti.”12

I due uomini parlano di essere “compagni”, fanno riferimento ai “giochetti” l’uno dell’altro, proprio come gli orchi, ma la loro motivazione è naturalmente più facile da capire. A Sid, per lo meno, non piace ciò che sta facendo – “Uscirne? (…) Vorrei proprio sapere come fare” – e la silenziosa espettorazione di Len può ben indicare insieme consenso e rassegnazione. Si ritrovano nella situazione di essere volenterosi cooperatori del male per via di una iniziale debolezza o stato di necessità, rafforzata dalla paura, e, come si può vedere, fatta sembrare auspicabile o persino degna di ammirazione attraverso l’uso costante, ottundente, di una retorica della sagacia e della scaltrezza. Questo processo è illustrato in molto maggior dettaglio lungo tutto il libro di Lewis dalla carriera dell’ambizioso, debole, superficialmente intelligente, docente universitario Mark Studdock (sebbene Studdock alla fine si redima, nel capitolo 15, in una scena che presenta anch’essa analogie tolkieniane).

Un’ulteriore prospettiva sul processo di corruzione viene inoltre da un'altra opera di Lewis di quasi esattamente lo stesso periodo, The Great Divorce (trad. it. Il grande divorzio), pubblicata per la prima volta nel 1946. In questo libro Lewis affronta il problema della natura dell’Inferno, un tema che già di per sé mette in discussione, come Lewis si rendeva conto, la tesi interpretativa che vedeva la “malvagità” unicamente come “bontà rovinata”. Dopo tutto, se tutte le creature malvagie erano buone in principio, persino Sauron, secondo quanto dice Elrond, che giustizia è quella che li condanna irrimediabilmente alla dannazione? Non ci potrebbe essere un modo di salvarli? Tolkien non raccolse mai la sfida a trovare una qualche via per educare o “riabilitare” gli orchi, sebbene fosse consapevole del problema (vedi la nota 10), e benché abbia speso una considerevole quantità di tempo considerando la possibilità di riabilitare Gollum, per non parlare di Saruman e perfino di Gríma Vermilunguo. Ma Lewis prese di petto il problema della giustizia in Il grande divorzio, presentando una serie di tipi umani facilmente riconoscibili, tutti connotati tuttavia da un’intensa concentrazione su se stessi e dal rifiuto di ammettere un iniziale errore: il Poeta Viziato, il Vescovo Ateo, il Tragediografo Nano, e altri ancora. La tesi di Lewis è che queste persone non sono condannate all’Inferno da qualche potere esterno, ma dal loro stesso egoismo. Le porte dell’Inferno sono invero chiuse a chiave, ma solo dall’interno.

Per Lewis, questo era un tema di una certa importanza, a cui ritornò in varie lavori e che rielaborò in differenti modi e non bisogna dare per scontato che Tolkien fosse sempre d’accordo con lui o approvasse le idee che Lewis poteva aver preso in prestito. Comunque, le similitudini fra le opere dei due autori negli anni Quaranta e Cinquanta sono sufficienti per suggerire che essi condividevano alcune opinioni. Il comportamento orchesco, sia esso degli orchi o degli umani, ha la sua radice non in una morale capovolta che vede il male come bene e viceversa, ma in una sorta di ego-centrismo che discerne in effetti ciò che è buono – come rimanere al fianco dei propri compagni o essere leali ai propri amici – ma è incapace di posizionare il proprio comportamento nel giusto posto di questa scala condivisa. Un’altra radice sta nella pronta tolleranza del male, allorquando questo viene trasformato in una specie di scherzo (la Lettera di Berlicche n. XI ha molto da dire al riguardo). E vi è una terza radice negli effetti di una costante corruzione del linguaggio. Anche su questo tema Lewis tornò più e più volte, nei suoi commenti sulle opere del “Braccio Filologico” nelle Lettere di Berlicche, nella scena del capitolo 20 di Fuori dal pianeta silenzioso in cui le argomentazioni di Haldan sulla inevitabilità del progresso si dimostrarono intraducibili in una lingua sensata, nella rielaborazione del mito della torre di Babele nel momento culminante di Quell’orribile forza (pag. 435 – “Qui Verbum Dei contempserunt, eis auferetur autem Verbum hominis” (“Coloro che disprezzarono la Parola di Dio, a loro sarà tolta anche la parola degli uomini”).13 In Tolkien non vi sono analoghe immagini di linguaggio negativo, ma egli impiegò enormi quantità di energie cercando di creare linguaggi che fossero esteticamente e moralmente più gradevoli di quello di tutti i giorni. Sarebbe stato certamente del tutto d’accordo con Lewis (e con il loro altro contemporaneo Orwell) che mentre pensieri sciocchi danno vita ad un linguaggio sciocco, un linguaggio imbelle o corrotto, o una retorica che usi quel linguaggio, rende difficile, se non impossibile, non avere pensieri sciocchi e corrotti. In questo quadro il costante sarcasmo degli orchi è un problema fondamentale, e niente affatto secondario.

Per tirare le somme: nella rappresentazione degli orchi di Tolkien (e in modo ancora più esplicito nella galleria di babbei ed illusi di Lewis) c’è un deliberato realismo. Il comportamento orchesco è il comportamento umano e l’incapacità degli orchi di giudicare le loro proprie azioni sulla base dei loro stessi criteri morali è un problema anche troppo tristemente familiare. Gli orchi e i loro omologhi umani rappresentano, in ogni caso, un problema antico e un’antica tipizzazione. Così come la parola “orc” è in origine Anglo-Sassone (vedi Morgoth’s Ring, pg. 124 e 422), così le creature stesse starebbero bene o potrebbero trovare equivalenti nelle epiche antiche o nelle fiabe. E tuttavia durante la vita di Tolkien dovette sembrare a molti che una specie completamente nuova di male era apparsa nel mondo, una che aveva anch’essa la sua origine nella perversione o corruzione del bene, ma che era ancora più insidiosa, familiare e minacciosa, in particolare per le menti accademiche. Anche per questa nuova forma Tolkien trovò un’immagine ed una parola, e anche in questo egli fu riecheggiato e chiosato dal suo amico Lewis. La seconda immagine generale del male in Tolkien è quella dello spettro (wraith), o Spettro dell’Anello (Ringwraith).

L’immagine stessa colpisce per la sua originalità: non si trova niente di simile nell’epica antica, nemmeno nel Beowulf. E tuttavia, così come succedere per molte delle creazioni di Tolkien, si può gettare luce sugli wraiths cercando il significato della parola nell’Oxford English Dictionary (OED), al quale Tolkien lavorò in gioventù e con il quale era così spesso in aperto o tacito disaccordo. La voce “wraith” dell’OED si contraddice, come sovente capita in quest’opera. Quale significato 1 presenta la seguente definizione: “Un apparizione o spettro di una persona morta; un fantasma o spirito,” riportando come primo esempio la citazione della traduzione dell’Eneide di Gavin Douglas del 1513. Come significato b, tuttavia, e citando nuovamente l’Eneide di Douglas a supporto, l’OED riporta: “Un’immateriale o spettrale apparenza di un essere vivente.” Gli spettri (wraiths) sono dunque vivi o morti? I curatori dell’OED accettano entrambe le soluzioni, cosa per cui non possono essere biasimati, visto che la contraddizione è nel testo stesso usato come fonte. D’altra parte l’OED non dice nulla riguardo all’etimologia della parola, riferendosi ad essa con un laconico “di origine oscura” – proprio il tipo di enigma che avrebbe attirato ripetutamente l’attenzione di Tolkien.14 Sia la contraddizione riguardo al significato, che l’incertezza in merito all’origine paiono in effetti aver avuto una qualche influenza sulla creazione degli spettri (wraiths) da parte di Tolkien: egli ricompose la prima e risolse la seconda.

Per affrontare prima di tutto la questione dell’etimologia, un ovvio suggerimento per chiunque avesse la formazione di Tolkien sarebbe di prendere “wraith” come una forma Scozzese, derivata dall’Anglo-Sassone “wriðan”, torcere o contorcersi (writhe). Se questo verbo fosse sopravvissuto intatto nell’inglese moderno, avrebbe avuto lo stesso paradigma di, per esempio, verbi comuni come “ride” (cavalcare), o “write” (scrivere), ovvero “writhe – wrothe – writhen”, come parti principali, parallele a “ride – rode – ridden”, “write – wrote – written”. Questo non è successo. Verbi di questo tipo, comunque, comunemente creano nomi collegati nel significato, ma differenziati da un cambio di vocale, come per “road” (strada) da “ride”, o “writ” (mandato, decreto) da “write”. L’OED cita sia “wreath” (ghirlanda) e “wrath” (ira) come derivati da “writhe”, il primo abbastanza ovviamente (una cosa ritorta), il secondo meno, ma simile per esempio all’Antico Inglese gebolgen, “arrabbiato, gonfio di rabbia”, da un verbo derivante dalla stessa radice di belly (pancia). – l’ira, dunque, come un’emozione contorta così come la rabbia è un’emozione gonfia. Potrebbe forse “wraith” non provenire dalla stessa radice di “writhe”?15 Che Tolkien la pensasse così è suggerito da una parola che Legolas usa nel capitolo “L’Anello va a sud”. In quel capitolo il tentativo della Compagnia di passare per il Caradhras è frustrato dalla neve e dalla malizia degli elementi, e Legolas va avanti per esplorare la via della ritirata. Ritorna dicendo che la coltre di neve non si estende per molto, sebbene non abbia portato il sole con lui: “Esso sta camminando nei campi blu del sud, e una piccola spira (a little wreath) di neve su questa collinetta del Cornorosso non lo preoccupa minimamente” (SDA, pg. 333). Con “wreath” (spira) qui, Legolas chiaramente intende qualcosa tipo “un filo di fumo” (wisp), qualcosa che ha appena sostanza e sebbene l’OED non lo registri, anche questo è uno dei significati di “wraith” – a wraith of mist, (un velo di nebbia), a wraith of smoke (una spirale di fumo), a wreath of snow (una spira di neve).2

Gli spettri (wraiths), pertanto, non sono esattamente “immateriali”, piuttosto qualcosa definito dalla sua forma (qualcosa di ritorto, una spirale, un anello), più che dalla sua sostanza. In questo sono come le ombre, e in effetti la citazione 1b da Gavin Douglas propone le due parole come alternative: uno “spettro od ombra” di Enea. E così come esse sono ambigue riguardo alla sostanza, se ne vedi una non puoi essere sicuro (secondo l’OED) se sia viva o morta. Tutti questi temi sono fatti propri da Tolkien; e, in verità, egli non vi aggiunge molto, perché sebbene gli Spettri dell’Anello (Ringwraiths) appaiano trenta o quaranta volte durante Il Signore degli Anelli, ci viene in realtà detto assai poco sul loro conto. Erano Uomini, una volta, dice Gandalf verso l’inizio del racconto, cui vennero dati anelli da Sauron, che così “li irretì (…) Tanto tempo fa caddero sotto il dominio di quell’Unico Anello diventandone gli Spettri, ombre sotto la sua grande Ombra, i suoi servitori più terribili” (SDA, pg. 76). Il Signore dei Nazgûl, apprendiamo molto più tardi, nel capitolo “La Battaglia dei Campi del Pelennor”, era una volta il Re-Stregone di Angmar, un reame abbattuto più di mille anni prima. Dovrebbe, pertanto, essere morto, ma chiaramente è invece ancora vivo, in un modo o nell’altro, e così collocato distintamente fra i due significati dati dall’OED. Egli è anche in un certo modo privo di sostanza, come un’ombra, perché quando fa scivolare all’indietro il suo cappuccio alla fine de “L’assedio di Gondor”, non c’è nulla sotto. E tuttavia deve esserci qualcosa, perché “egli aveva una corona regale; e tuttavia non era posta su di una testa visibile” (SDA, pg. 897, traduzione rivista). Lui e i suoi compagni possono agire fisicamente, portare spade d’acciaio, montare a cavallo o su rettili alati, o utilizzare una mazza ferrata nel caso del Signore dei Nazgûl. Ma non possono essere danneggiati fisicamente, da alluvione od arma – eccetto, coerentemente, dalla Lama dei Tumuli di Merry, carica di incantesimi per la sconfitta di Angmar; sono gli incantesimi che funzionano, non la lama stessa. Gli Spettri dell’Anello, dunque, hanno qualcosa in comune, anche fisicamente, con la nebbia e il fumo, che al pari di essi hanno una consistenza fisica, sono persino pericolosi o soffocanti, ma allo stesso tempo del tutto intangibili.

Nessuno di queste questioni etimologiche, tuttavia, ci è di aiuto per il problema più importante riguardo il concetto di Spettro dell’Anello: come lo si diventa e quanto il processo che sottende a questa trasformazione è frutto di persuasione o di suggestione? Probabilmente lo stesso Tolkien venne elaborando solo lentamente le risposte a queste domande. Gli Spettri dell’Anello, o Cavalieri Neri, appaiono molte volte nel primo libro del Signore degli Anelli, e nel primo capitolo del secondo libro, ma sembrano relativamente poco sviluppati, tanto da avere ben poco impatto tangibile, eccetto che nell’attacco a Colle Vento. Tre volte essi incontrano Hobbit o Uomini – il Gaffiere Gamgee, il signor Maggot, Omorzo Cactaceo – e provano in modo alquanto diretto ad avere informazioni da loro. Diverse volte li vediamo come ombre o forme, che annusano o strisciano. Attaccano la casa nella Terra di Buck e l’osteria di Brea, allo stesso modo di come farebbero degli uomini. Ne “La Compagnia dell’Anello” (a parte l’assalto a Colle Vento e il racconto riguardante il coltello di Morgul fatto da Gandalf nel capitolo “Molti incontri”), è solo nel resoconto che ne fa Boromir ne “Il Consiglio di Elrond” che troviamo qualche indicazione del significato e dell’impatto che svilupperanno successivamente.

Ciò che dice Boromir è che Gondor è stata sconfitta nell’Ithilien non dal numero, ma da “un potere che mai prima d’oggi avevamo sentito. “ Boromir lo descrive (come di consueto) come “un grande cavaliere nero, un’ombra nera sotto la luna,” ma aggiunge che “ogni qual volta si avvicinava, i nostri nemici cadevano in preda alla follia, ma il panico coglieva i nostri più valorosi soldati” (SDA, pg. 283). Questa sarà la caratteristica principale degli Spettri dal momento in cui tornano ad apparire (ora su cavalcature alate nel cielo), dopo che la Compagnia ricompare lasciata Lothlórien. Dopo di ciò vi sono forse una dozzina di occasioni nel Signore degli Anelli in cui un Nazgûl passa in alto nel cielo, su Sam e Frodo, o su Gondor, o sui Cavalieri di Rohan, e la descrizione è solitamente una combinazione degli stessi elementi: ombra, grido, raggelarsi del sangue, paura. Tipico è il momento in cui Pipino e Beregond sentono i Cavalieri Neri e li vedono piombare su Faramir in “L’assedio di Gondor” (SDA, pg. 875):

Ad un tratto, mentre parlavano, furono come colpiti da sordità, raggelati e pietrificati. Pipino si accasciò per terra con le mani premute sulle orecchie; ma Beregond, (…) vi rimase paralizzato, con lo sguardo fisso nel vuoto. Pipino conosceva il grido terrificante che avevano appena udito. Era il medesimo che moto tempo addietro, nelle Paludi della Contea, l’aveva fatto rabbrividire; ma ora la sua forza e il suo odio si erano ingigantiti e trafiggevano il cuore con una velenosa disperazione.

L’ultima parola è quella cruciale. Con il progredire del Signore degli Anelli, diventa chiaro che, benché gli Spettri dell’Anello possiedano capacità fisiche, la loro vera arma è psicologica: essi disarmano le loro vittime colpendole con la paura e la disperazione.

Questo almeno è un concetto suggestivo. Molte persone durante il ventesimo secolo, ed autori tanto differenti da Tolkien e l’uno dall’altro come Alexander Solzhenitsyn e William Golding, sono stati sorpresi, persino sconcertati, dalla strana passività del mondo occidentale (una frase che Tolkien avrebbe fatto propria) di fronte ai mortali pericoli che si profilavano all’Est. Intere comunità sembrano, più e più volte, andare incontro alla propria morte in uno stato di sonnambulismo, abbandonando il pensiero della resistenza anche quando sarebbe stata perfettamente realizzabile.16 Nel confronto tra il forte e il debole, il debole (gli Spettri) ha spesso avuto la meglio. Queste riflessioni non sono del tutto scollegate dalla questione di come si diventa uno spettro. Può avvenire a causa di un colpo dall’esterno, come sottolinea Gandalf: se la scheggia del pugnale di Morgul non fosse stata estratta da Frodo, “saresti diventato uno spettro (wraith) al servizio dell’Oscuro Signore” (SDA, pg. 258). Ma di solito il sospetto è che siano le persone stesse che volontariamente si tramutino in spettri. Cominciano con buone intenzioni, accettano anelli da Sauron (come avrebbe detto Lewis) non perché vogliano votarsi al “male”, ma con l’intenzione di usarli per uno scopo che è essenzialmente buono, per il potere o la sicurezza o la conoscenza. Ma poi cominciano a prendere scorciatoie, a eliminare gli avversari, a credere (come è spesso successo durante il ventesimo secolo, nella letteratura così come nella vita) in una “causa” che giustifica qualsiasi cosa essi facciano. Lo spettacolo di una persona divorata dalla causa è sufficientemente familiare per dare plausibilità all’idea dello “spettro”.

Una volta di più, Lewis sembra aver sviluppato il concetto di spettro in una versione maggiormente realistica in Quell’orribile forza (quasi certamente sotto l’influenza di Tolkien: questo concetto, come molti dei temi che menziono in questo saggio, dev’essere stato oggetto di discussione fra gli Inklings). L’ovvio spettro nel libro di Lewis è Wither, il vice-direttore della N.I.C.E.. Ad un primo livello egli è il classico esempio del burocrate, questa figura tipica del ventesimo secolo. Il suo linguaggio è elaborato, forbito, completamente evasivo. È un maestro nell’avere l’ultima parola e nel costringere le persone deboli come Mark Studdock in situazioni disastrose, senza prendere in alcun modo una posizione. È impossibile discutere con lui poiché non dice mai nulla che abbia una qualche sostanza; né sembra ricordarsi nulla di ciò che ha detto in precedenza. Tutto questo è consueto e familiare per chi lavora in una grande organizzazione. Ma Wither si rivela essere molto simile ad uno spettro anche ad un livello non realistico. In un punto critico nel capitolo 9, quando Mark Studdock ha deciso di dimettersi dalla N.I.C.E. e andarsene via, entra nell’ufficio del vice-direttore senza appuntamento. Pensa per un momento di aver trovato un cadavere, ma Wither respira ed è persino sveglio e cosciente. Sembra tuttavia essere in un altro mondo: “Ciò che guardava fuori da quegli occhi pallidi e acquosi era, in un certo senso, l’infinito – l’informe e l’interminabile. La stanza era silenziosa e fredda: non vi erano orologi e il fuoco era spento. Era impossibile parlare ad una faccia come quella” (That Hideous Strength; pg. 230). Wither dice a Studdock di andarsene, i suoi nervi cedono, ed egli fugge. Ma mentre corre, raggiunto il limite della proprietà della N.I.C.E., vede una figura davanti a lui: “una figura alta, molto alta, leggermente curva, che passeggia canticchiando a bocca chiusa un tetro motivetto: il Vice-Direttore in persona” (That Hideous Strength; pg. 231). Studdock si scoraggia e ricade nella schiavitù e nel tradimento dei propri principi. Ciò che ha visto deve esser uno spettro, nel secondo senso dato dall’OED, una “proiezione” o una “apparizione” di una persona viva. Ma Wither è uno spettro in tutti i sensi che siamo venuti fin qui accumulando: sta sospeso tra la vita e la morte, può essere sia reale che immateriale, se lo vedi non puoi essere sicuro che sia lui, crea una sorta di disperazione esistenziale, è stato divorato dal suo lavoro e dal suo gergo professionale da burocrate.

Non incontriamo nessuno identico a Wither nel Signore degli Anelli e qualunque personaggio fosse come lui sarebbe in effetti un’anomalia nella Terra di Mezzo. Nulladimeno gli Withers di questo mondo e gli Spettri dell’Anello hanno una certa “applicabilità” reciproca, per usare le parole di Tolkien nella sua prefazione alla seconda edizione (SDA, pg. 19). Saruman si avvicina allo stile a all’idioma burocratico e si può immaginarlo come uno Spettro dell’Anello in fieri. Quando muore, alla fine di “Percorrendo la Contea”, il suo stato di quasi-spettro è rivelato, quando una “nebbia grigia” si raccoglie attorno al corpo, sale “come fumo”, e “si dissolve nel nulla” e lascia dietro di sé un cadavere rattrappito “da lunghi anni di morte” (SDA, pg. 1097). Come uno spettro, egli era effettivamente morto da molti anni, ma senza rendersene conto. Qualcosa di simile si può dire a proposito del risecchito Gollum, ma molti dei personaggi del Signore degli Anelli mostrano i primi segni, o sono coscienti dei primi rischi, della trasformazione in spettro: Bilbo (con la sua rabbia petulante verso Gandalf), Frodo (che comincia a diventare trasparente), Gandalf stesso (che rifiuta di toccare l’Anello). Quest’immagine è fantastica in Tolkien e rimane sospesa tra la fantasia e il realismo in Lewis, ma la maggior parte delle persone che hanno esperienza della “psicopatologia del quotidiano” troveranno facile trasporla in una versione non fantastica. Berlicche opera questa transizione in maniera chiara e limpida alla fine della “Lettera XII”, quando nota che i Cristiani definiscono Dico come Colui “senza il quale nulla è forte”. C’è molta più verità di quanto pensino in questa affermazione, continua Berlicche, perché (The Screwtape Letters, pg. 64)

Nulla è molto forte: forte a sufficienza da rubare i migliori anni di un uomo non in dolci peccati, ma in un tetro vagolare della mente su non si sa ben cosa e non si sa perché, nella gratificazione di curiosità così flebili che l’uomo è appena consapevole di provarle (…) o nel lungo, opaco labirinto di fantasticherie che non hanno neanche la bramosia o l’ambizione a dargli sapore.

O, avrebbe potuto aggiungere, a guardare i programmi televisivi durante il giorno. Quando Frodo dice, appena prima di Colle Vento, che se “i pasti frugali” e il “dimagrimento” continuavano “diventerò uno spettro”, esprime un timore che travalica la Terra di Mezzo e non sorprende che Grampasso lo rimproveri “con sorprendente serietà” (SDA, pg. 219, traduzione rivista). (Se uno volesse leggere l’autobiografia di uno spettro, ambientata in un mondo a metà tra l’allegoria medievale e il lavoro in un moderno ufficio, un classico esempio è (o dovrebbe essere) la novella di Gene Wolfe “Forlesen”, un lavoro scritto come ironica celebrazione della Festa dei Lavoratori).17 Tolkien, Lewis e Wolfe tutti insieme dimostrano che uno dei maggiori vantaggi del fantasy nel mondo moderno è che esso affronta con efficacia le maggiori minacce di quel mondo, come il lavoro, la noia, la disperazione e la burocrazia, che così spesso rimangono un libro chiuso per autori moderni più convenzionali, privi di esperienza della vita reale.

Orchi e spettri, infine, condividono una qualità. In entrambi i casi vediamo in essi, sebbene vagamente, un elemento di bontà pervertita, di male come errore, qualcosa di insidioso. Nessuna di queste due immagini contraddice la visione ortodossa, anti-Manichea, Lewisiana/Boeziana che il male è un’assenza, non una forza indipendente o un “possente opposto”. L’immaginazione di Tolkien, tuttavia, era sotto certi aspetti più ampia di quella di Lewis e meno controllata dal ragionamento astratto. C’è un’immagine generica nel Signore degli Anelli che fa sorgere un dubbio rispetto all’intera tesi ora esposta: quella della Creatura del Tumulo (Barrow-wight).3 La creatura (wight) appare una sola volta, ed è in ogni caso una sopravvivenza da un periodo precedente alla concezione del Signore degli Anelli18; potrebbe pertanto essere messa da parte come una pura e semplice anomalia. E tuttavia, è un’anomalia disturbante, considerando i dettagli che Tolkien fornisce.

Nel capitolo “Nebbia sui Tumulilande” i quattro hobbit sono catturati dalla Creatura del Tumulo, rivestiti di bianco e distesi all’interno del tumulo con “molti tesori” attorno; c’è una spada posta di traverso sui colli di tutti, meno quello di Frodo; poi appare il braccio della Creatura e cerca di prendere la spada, evidentemente intenzionato a sacrificare le sue vittime; Frodo taglia il braccio e chiama Tom Bombadil, che appare, scaccia la Creatura e fa rinvenire gli altri tre hobbit. Quando Merry si sveglia, dice: “Gli uomini di Carn Dûm ci hanno assaliti questa notte, e noi siamo stati sconfitti. Ah! La lancia nel mio cuore!” (SDA, pg. 175). Tom distribuisce una parte dei tesori, ne ammucchia la maggior parte sull’erba per rompere l’incantesimo, e tiene un gioiello per sé e per Baccadoro: “Dolce e soave colei che tanto tempo fa portò questo gioiello sulla sua spalla. Sarà Baccadoro a portarlo, adesso, e noi non la dimenticheremo mai!” (SDA, pg. 177).

Qualche ambiguità emerge persino dalla parafrasi appena fatta. La spiegazione più facile della “Creatura del Tumulo” è dire che essa è un draugr, in Antico Norreno, un “drow” nel posteriore dialetto delle isole Orkney, ovvero uno spirito o un cadavere rianimato che infesta il tumulo in cui è stato seppellito, e specialmente il tesoro del tumulo. Ma questo non può essere il caso della Creatura. Il tesoro chiaramente apparteneva agli “Uomini dell’Ovesturia”, come li chiama Tom, ed egli li ricorda con benevolenza. Questo è il motivo per cui prende la spilla per Baccadoro. Gli Uomini dell’Ovesturia, del resto, sono i nemici di Carn Dûm, il paese governato dal re-stregone che diventerà col tempo il Signore dei Nazgûl. Mentre Merry dorme, sembra che egli venga posseduto dallo spirito di un uomo dell’Ovesturia, ed egli rivive l’agonia mortale di quest’ultimo, quando si sveglia. La Creatura, pertanto, non proviene dalle persone sepolte nel tumulo; e ciò che sembra fare, in qualche modo, è provare a rivivere un precedente trionfo, trasformando gli hobbit nelle persone sepolte nel tumulo (attraverso l’influenza delle vesti e del tesoro), per poi ucciderli ancora una volta. Ma questo non spiega da dove provenga la Creatura stessa.

Come accade spesso con Tolkien, troviamo un problema piuttosto simile nel Beowulf, ai versi 2233-2277, dove ci viene detto che tanto tempo prima il sopravvissuto di una nobile razza nascose un tesoro in un tumulo (beorh). Egli poi morì ,“gli giunse al cuore il getto della morte”, e – continua il poema senza interruzione – un drago trovò il tesoro “abbandonato all’aperto (opene standan). Questo punto del Beowulf non ha molto senso, poiché la ragione principale di seppellire un tesoro è naturalmente quella di nasconderlo, non lasciarlo abbandonato all’aperto: molti hanno pensato che l’Ultimo Sopravvissuto e il drago fossero lo stesso essere. Come vari eroi delle saghe nordiche e come Eustace Scrubb nel libro da bambini The Voyage of the Dawn Treader, di Lewis, l’Ultimo Sopravvissuto “si stese sull’oro” e diventò un drago. Se quest’ultima idea dovesse essere accettata per il Signore degli Anelli, la Creatura del Tumulo dovrebbe dunque essere lo spirito o il corpo non-morto di uno di coloro che vennero seppelliti nel tumulo, uno degli “Uomini dell’Ovesturia”. Ma lo sgradevole corollario di questa soluzione è che nella morte un nemico dell’Oscuro Signore è stato trasformato in un suo alleato, se non in un servitore – forse inasprito e corrotto da secoli di avidità e solitudine. In alternativa, il poeta del Beowulf potrebbe aver raccontato la sua storia nel modo giusto, dopo tutto. Il tesoro fu depositato nel tumulo, ma quest’ultimo venne lasciato aperto. Poi qualcosa venne da fuori, dal posto a cui lo fa tornare Tom: “Là dove i portali sono per sempre chiusi, finché il mondo non sarà sanato.” (SDA, pg. 174)19 Ma anche questa interpretazione contiene una certa contraddizione interna, perché Tom richiama gli hobbit addormentati, nelle stessa pagina, con le parole “L’oscura porta è spalancata (…) e il Portale è aperto”. Il portale potrebbe essere aperto per gli hobbit e chiuso per la Creatura, ma allora non “chiuso per sempre”. Tutto questo suggerisce due ipotesi, entrambe inquietanti: primo, che la Creatura è in realtà un “drow” o un drago, lo spirito di una persona seppellita, ma in questo caso il bene può essere trasformato in male anche dopo la morte, come succede in alcune rami della mitologia classica, il ché suggerisce che i tutti i morti odiano i vivi, anche i loro parenti e amici più cari, per pura gelosia della vita.20 In alternativa, la Creatura potrebbe essere solo un potere alieno, forse creato dagli incantesimi di Angmar, che si è intrufolato nel tumulo; in quel caso sembra che una persecuzione possa essere portata avanti anche oltre la tomba, diretta contro la persona il cui spirito si è brevemente rianimato in Merry. Nessuna delle due ipotesi è pienamente soddisfacente, ma entrambe suggeriscono che vi sono cose non spiegabili con la filosofia Lewisiana o Boeziana. La bontà può essere onnipotente, ma ha le sue ragioni per non intervenire.

E nel frattempo (che possono essere millenni) gli uomini e gli hobbit vivono effettivamente in un mondo manicheo in cui uno non è necessario che uno abbia i semi del male dentro di sé per diventare una vittima e in cui “Nulla è forte” in modi che Berlicche non si immaginava neppure. Questo mondo, ahimé, è il mondo reale del Ventesimo secolo e della vita di Tolkien, una vita durante la quale molte delle cose che apparentemente erano state rese impossibili dal “progresso della civiltà” tornarono per confondere gli ottimisti: tortura di Stato, campi di sterminio, genocidii, “pulizia etnica”. Tali azioni devono essere state compiute, verrebbe da pensare, da “orchi”, ma con ogni evidenza esse furono pianificate da “spettri” – e la tesi di Tolkien, più volte ripetuta, che nessuno è al sicuro dalla possibilità di diventare uno “spettro”, è una tesi che nessuno, nemmeno il più bien pensant dei suoi critici, può permettersi di ignorare. Si potrebbe ribattere con una certa logica che se queste erano le opinioni sulla vita reale che Tolkien (e Lewis) volevano affermare, allora avrebbero dovuto ambientarle in un contesto di vita reale, senza il velo o, per alcuni, la distrazione del fantasy. A questo possiamo solo replicare che il tema dell’origine del male è uno che vari altri contemporanei, inclusi i più distinti (Orwell, Golding, Vonnegut, Le Guin, T.H. White), furono capaci di maneggiare solo attraverso l’utilizzo di media per un verso o per l’altro non realistici.21 Non sappiamo perché debba essere così, ma il modello si ripete con sufficiente costanza da suggerire che l’elemento fantastico non sia un capriccio, ma una necessità.

Inoltre, ciò sono pochi dubbi che la ragione per il fascino potente esercitato da Tolkien in particolare non risieda in un mero appetito per la stravaganza, ma nella sensazione che la sua opera affronti problemi seri, che richiedono una risposta che non viene fornita dai portavoce ufficiali della sua e della nostra cultura. Durante la maggior parte della vita creativa e professionale di Tolkien l’ambiente letterario dell’Inghilterra era dominato da gruppi come il “Bloomsberries”, centrato su Virginia Woolf, E.M. Forster e Bertrand Russell o il Sonnenkinder di Evelyn Waugh. Questi avevano i loro propri temi e i propri meriti, ma se si chiede cosa un lettore poteva aspettarsi di imparare da uno qualunque di loro in merito all’origine del male, per esempio, o all’equilibrio tra libertà e responsabilità nel potere politico, allora la risposta non può che essere “molto poco”.22

Una delle caratteristiche di tutti gli scrittori appena menzionati che salta subito all’occhio è la loro rigorosa concentrazione sulla moralità privata. Quegli abitanti del Ventesimo secolo che non godevano del lusso di una rendita privata, di “una stanza tutta loro”, della libertà dalla coscrizione o della capacità di evitare scelte politiche come il servizio (o il rifiuto del servizio) in Vietnam, tuttavia, hanno costantemente trovato nell’opera di Tolkien una compenetrazione della moralità privata con quella pubblica che si è imposta alla loro attenzione, e ha suscitato spesso la loro emulazione. Non è un caso che Tolkien abbia in effetti creato un nuovo genere letterario di massa, la trilogia epica fantasy; né che si possano sempre trovare le sue opere sulle barricate o tra i contestatori in Inghilterra, nei Mari del Sud, in Russia e in tutto il mondo.23 Le sue teorie e quelle dei suoi amici sulla natura e le origini del male possono esser apparse astruse o atavistiche all’epoca, ma esse combinavano la speculazione fantastica con una vasta e dolorosa esperienza e un certo duro realismo, notabilmente assente dalle opere di filosofi (per non parlare degli psicologi) più professionali e più protetti. La Terra di Mezzo possiede certamente un fascino basato sul suo paesaggio, sui suoi personaggi, sul suo riportare in auge il romanzo avventuroso; ma tutto questo sarebbe puramente superficiale (com’è nelle opere di alcuni, ma non di tutti, i suoi imitatori), se non vi fossero ad animarla i temi del potere, del male e della corruzione. Sauron e gli Spettri dell’Anello, il Grande Fratello e il Partito, la testa di maiale e i ragazzi del coro: queste sono state le immagini caratterizzanti del Male – completamente originali, estremamente varie, stranamente coerenti – per una cultura ed un secolo che ebbero un contatto troppo ravvicinato con esso perché immagini più tradizionali potessero ancora sembrare del tutto adeguate.



[Traduzione autorizzata di Simone Bonechi di 'Orcs Wraiths, Wights: Tolkien’s Images of Evil' in Tom Shippey, Roots and Branches, Walking Tree Publishers, 2007] .

1 Questo saggio è apparso per la prima volta in J.R.R. Tolkien and his Literary Resonances: Views of Middle-earth; a cura di George Clark e Daniel Timmons; Westport CT; Greenwood Press, 2000; pp. 183-198. Ringrazio la Greenwood Press e George Clark (Dan Timmons è, purtroppo, deceduto) per il permesso di ristamparlo. Gran parte delle argomentazioni di questo articolo furono riprese nel mio J.R.R. Tolkien Author of the Century; London, HarperCollins; Boston, Houghton Mifflin, 2001, pp. 121-134 (trad. it. J.R.R. Autore del Secolo; Milano, Simonelli, 2004; pp. 155-167), ma spero che i riferimenti incrociati a Lewis che faccio nel presente lavoro, in particolare, aggiungano qualcosa a ciò che scrivevo allora.

2 Per un più ampio commento su questo punto, vedi Tom SHIPPEY, The Road to Middle-earth; 3° edizione rivista; Boston, Houghton Mifflin, 2003; pp. 140-146 (ediz. it. La via per la Terra di Mezzo; Genova, Marietti, 2005; pp. 207-214)

3 Oltre al brano citato sotto, vedi per esempio il breve articolo di Lewis “Evil and God”, in God in the Dock: Essays on Theology and Ethics; a cura di Walter Hooper, Grand Rapids, MI, Eerdmans, 1970; pp. 21-24). L’importanza della reviviscenza di un certo tipo di Manicheismo era un altro punto su cui Tolkien e Lewis erano d’accordo, vedi J.R.R. TOLKIEN, “Beowulf:The Monsters and the Critics” in IDEM, The Monsters and the Critics and other Essays; London, HarperCollins, 1983; pg. 26 (trad. it. Il Medioevo e il fantastico; Milano, Bompiani, 2004; pg. 57).

4 Le più perspicaci affermazioni sulla differenze tra la fazioni del bene e quella del male nel Signore degli Anelli e la più convincente confutazione delle contestazioni riguardo alla loro somiglianza, sono quelle di W.H. Auden, nella sua recensione del 1956 e nel suo articolo del 1968.

5 Prendo la frase dall’opera di Sigmund Freud, Zur Psychopathologie des Alltagslebens (1929). Come guida agli eventi della vita di tutti i giorni, questo libro è comicamente deludente. In tutte le proprie opere, Lewis ripetutamente richiamò l’attenzione del lettore sulle inadeguatezze delle idee di Freud sul male nell’uomo (e sulla vita di tutti i giorni).

6 C. S. LEWIS; The Screwtape Letters; with Screwtape proposes a Toast; reprint, London, Fontana, 1961 (trad. it. Le lettere di Berlicche).

7 J.R.R TOLKIEN; Morgoth’s Ring: The Later Silmarillion, Part One, The Legends of Aman; a cura di Christopher Tolkien; “The History of Middle-earth”, vol. X; London HarperCollins, 1993; pg. 415.

8 Ivi, pg. 421.

9 J.R.R. TOLKIEN; The Hobbit: or There and Back Again; a cura di Douglas A. Anderson; London, HarperCollins, 2002 (ed. it. Lo hobbit o la Riconquista del Tesoro; Milano, Adelphi, 1994; pp. 80-81).

10 Le mutevoli idee di Tolkien sull’origine degli orchi si possono ritrovare in diversi dei suoi scritti, soprattutto in Letters of J.R.R. Tolkien, a cura di Humphrey Carpenter con l’assistenza di Christopher Tolkien; London, George Allen and Unwin; 1981; pp. 187-195, 355 (ed. it. La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973; Milano, Bompiani, 2001; pp. 212-222 e pg. 399), e in Morgoth’s Ring (pp. 123-124, 408-424). Erano stati generati a partire da Elfi o da Uomini? Potevano accoppiarsi con gi umani? Come si riproducevano? Erano di “sangue misto”? Alcuni di loro erano forse in origine dei Maiar? Le due facce del problema che Tolkien non riuscì in definitiva a risolvere erano queste: da un lato, l’inabilità delle potenze malvagie (Melkor, Sauron) di creare, impostasi a Tolkien dall’argomentazione ortodossa di Lewis riassunta sopra, significava che essi dovevano essere una corruzione di qualcosa di preesistente; ma se questo era il caso, allora dall’altro lato essi, almeno in teoria, non avrebbero dovuto essere “irrecuperabili”, per quanto improbabile questa redenzione potesse sembrare, e per quanto impossibile fosse, per Elfi e Uomini, il realizzarla; vedi Morgoth’s Ring, pg. 419. Per ulteriori commenti vedi Tom Shippey, The Road to Middle-earth; cit. pg. 233-234 (ed. it. La strada per la Terra di Mezzo; cit.; pp. 330-331.

11 Il primo volume della trilogia “spaziale”, Out of the Silent Planet (trad. it. Lontano dal pianeta silenzioso), fu pubblicato nel 1938, il terzo volume, That Hideous Strength (Quell’orribile forza), nel 1945. Lewis pubblicò una edizione ridotta di quest’ultima opera nel 1955, nella quale omette alcuni dei brani citati qui.

12 C. S. LEWIS, That Hideous Strength; London, Bodley Head, 1945; pg. 382.

13 La maledizione in latino pronunciata da Merlino è uno dei brani espunti dalla edizione ridotta di Quell’orribile forza. La frase che dà il titolo al libro è tratta da una narrazione in Medio Scozzese della storia di Babele, come nota Lewis nella sua epigrafe.

14 Vedi T. SHIPPEY, The Road to Middle-earth; cit.; pp. 55-70 e passim (La strada per la Terra di Mezzo; cit.; pp. 93-113).

15 Data la provenienza dallo Scozzese dei tempi antichi, l’ovvia derivazione sarebbe dal passato del verbo, wráð in Antico Inglese. Questo darebbe *wrothe nell’Inglese moderno standard, ma i dialetti Scozzesi e dell’Inghilterra Settentrionale non arrotondavano la –á lunga dell’Antico Inglese, creando invece allotropi come home (standard) vs. hame (Settenrionale), o stone (standard) vs. stane (Settentrionale). Il “wraith” di Gavin Douglas, da wriðan, sarebbe allora un esatto parallelo di “raid” da rídan, quest’ultimo introdotto nell’Inglese standard dallo Scozzese, grazie a Walter Scott. La sua etimologia è esattamente parallela allo standard “road” ed entrambi derivano dall’Antico Inglese rád, come (a mio parere) “wraith” deriva da wráð.

16 Solzhenitsyn riflette sull’incapacità di resistere alle squadre di sterminio in The Gulag Archipelago:1918-1956; London, Collins/Fontana, 1974, pp. 11-15 (trad. it. Arcipelago Gulag); Ralph, l’eroe di The Lord of the Flies (trad. it. Il Signore delle Mosche) di William Golding è caratterizzato non da mancanza di coraggio, ma da mancanza di aggressività: la sua passività porta alla morte di Piggy Si possono agevolmente rintracciare paralleli nel periodo post-bellico (The Lord of the Flies uscì nello stesso anno del primo volume del Signore degli Anelli, il 1954) con il fallimento della Lega delle Nazioni venti anni prima.

17 Gene WOLFE; A Book of Days, New York, Doubleday, 1981).

18 Vedi Shippey, The Road to Middle-earth; cit.: pg. 105-110 (trad. it. La via per la Terra di Mezzo, cit.; pp. 160-167).

19 Ho ritradotto in questo modo l’ultima riga dell’incantesimo con cui Tom Bombadil bandisce la Creatura del Tumulo, che nel testo italiano è riportata come segue: “ “Là dove apriranno in cancelli quanto il mondo corretto sarà”, perché ho preferito dare una resa più letterale dell’originale inglese: “Where gates stand forever shut, till the world is mended”, anche per motivi di coerenza con i successivi ragionamenti di Shippey.

20 Lewis mette questa convinzione in bocca al Non-uomo nel capitolo 13 del secondo volume della sua “trilogia dello spazio”, Perelandara. Il Non-uomo potrebbe essere citato come un tipo di “spettro”. Il corpo dello scienziato Weston è chiaramente posseduto dal Demonio, ma alle volte (come nel capitolo 13) torna ad essere se stesso; a meno che non sia un trucco, o solo una “morente energia psichica” come quella che anima per un momento Merry.

21 Discuto la relazione tra alcuni dei membri di questo gruppo nel mio J.R.R. Tolkien Author of the Century ; cit., vedi sopra, nota 1); pp. 158, 311-312 (pp. 186, 304-306 dell’edizione italiana).

22 Si può, per esempio, legger dall’inizio alla fine il molto lodato e ambiziosamente intitolato lavoro Principia Ethica (1903) di G.E. Moore, un “Bloomsberry” di primo piano, senza trovarvi nulla che abbia una ricaduta pratica sulle tematiche che dovevano dominare il secolo. Prendo il termine Sonnenkinder dal resoconto del circolo di Waugh di Martin Green, Children of the Sun (1977). I rapporti tra gli Inklings e il gruppo di Bloomsbury dev’essere ancora studiato, ma sembra chiaro che Lewis almeno ribatteva a diversi di questi (Forster, Russell) in varie sue opere.

23 Un tema ribadito con grande forza da Patrick Curry nel suo Defending Middle-Earth. Myth and Modernity; New York, St Martin’s Press, 1997; pp. 54-56.

1 Nell’originale inglese il testo reca: “Where there’s a whip there’s a will”, adattamento del proverbio inglese “Where there’s a will there’s a way”, pressoché identico al nostro “volere è potere”. (N.d.T.)

2 Un analogo termine italiano per indicare qualcosa di quasi immateriale, di tanto sottile e impalpabile da essere indistinto, quasi invisibile, è la parola “ombra”, (che tra i vari significati ha oltretutto quello di fantasma, spettro), utilizzata sia in senso materiale, che metaforico: un’ombra di neve, un’ombra di verità, essere l’ombra di se stessi. (N.d.T.)

3 Ho preferito tradurre “Wight” con il termine “Creatura” piuttosto che con quello di “Spettro” usato nelle corrente traduzione italiana del Signore degli Anelli, per renderne la differenza con “Wraith”, ivi tradotto parimenti con “Spettro”; questo anche sulla scorta dell’etimologia citata nella moderna edizione dell’Oxford Dictionary of English; “Antico Inglese wiht ‘cosa, creatura’, di origine germanica, connesso all’Olandese wicht ‘bambino’ e al Tedesco Wicht ‘creatura’. (N.d.T.)