Considerazioni per l’evento su Tolkien alla Weston Bodleian Library

(29 ottobre 2015)



di Patrick Curry

Vorrei iniziare menzionando il fatto che nel recente Companion to Tolkien pubblicato dalla Wiley Blackwell c’è un mio saggio di una certa ampiezza sul tema della risposta critica alla narrativa tolkieniana, saggio che non tenterò di riassumere in pochi minuti qui. Per cui, se volete una disamina ampia e circostanziata di questo argomento, o citazioni di capitoli e brani, vi chiederei per favore di cominciare da lì.1

Comincerei col dire che il problema, nel valutare l’opera di Tolkien, è sempre stato, come dice Tom Shippey, il fatto che egli fosse istruito come chiunque altro (di solito anche di più), ma “in una scuola differente”2 In un certo senso gli hippies avevano ragione: Tolkien era davvero un esponente della contro-cultura. La sua fondamentale dedizione alla filologia storica, al cattolicesimo, ma anche al coraggio pagano “nordico”, all’incanto in opposizione alla magia come forma di potere, e al primato letterario della narrazione, restano profondamente fuori moda in quasi tutti i contesti critici contemporanei. Allo stesso tempo, il suo enorme successo popolare ha confermato l’esistenza fra i lettori di una fame virtualmente insaziabile proprio per ciò che Tolkien ha creato partendo da questi elementi. (Il che fornisce ai suoi critici un’altra ragione per non perdonarlo, naturalmente).

Questa situazione sta lentamente cambiando. Cinque anni fa, uno dei principali recensori del Guardian affermò che “di tutti i metodi di suicidio professionale che sono a disposizione dello scrittore, esprimere affetto per Tolkien è uno dei più efficaci.”3 (Gli sono grato per essere stato così sincero al riguardo). Da allora, tuttavia, ha preso campo una nuova generazione di scrittori e critici che è cresciuta coi suoi libri, che conserva per questi un affezionato seppur non acritico rispetto e che non ha paura di dirlo.

Persino i vecchi custodi dell’ortodossia, sebbene ancora impegnati in un combattimento di retroguardia, hanno dovuto adattare la loro tattica. Perciò John Mullan, professore di Inglese all’University College di Londra, ha recentemente ammesso che Il Signore degli Anelli ha avuto un’enorme influenza, ma non perché sia, da un qualsiasi punto di vista, un grande libro.4 (Ironicamente, laddove una volta approvare Tolkien era considerato da reazionari, adesso il timore è che disapprovarlo del tutto possa fare apparire tali.)

Affrontiamo quindi il tema della risposta critica all’opera di Tolkien attraverso questa domanda, che è sempre aleggiata attorno ad essa: Il Signore degli Anelli è, come moltissimi lettori hanno affermato e tantissimi critici negato, un grande libro?

Sono sicuro di una cosa: anche dopo che l’ermeneutica del sospetto avrà fatto del suo peggio, questa rimane una domanda che è legittimo porre, che riguardi questo o qualsiasi altro libro. E sebbene non privo di difetti, il libro di Tolkien può per lo meno portare delle plausibili argomentazioni a proprio favore. Tratta di argomenti di fondamentale importanza. Possiamo citarne almeno tre:

È vero, non si andrebbero a cercare nel Signore degli Anelli spunti e intuizioni per problemi di identità sessuale, ma questo non pare essere un problema per gli ammiratori di Moby Dick. E nel romanzo di sesso non ce n’è affatto. Come, ad esempio, in Gente di Dublino.

Ci sono anche altri criteri possibili. Uno è quello proposto da David Foster Wallace: “In tempi oscuri, la definizione di buona arte sembra potersi riferire ad un’arte che trova e tenta di rianimare quegli elementi dell’umano e del magico che sono ancora vivi e luminosi nonostante l’oscurità dei tempi.”5 Appropriato, direi.

Oppure c’è tesi di Roger Shattuck, un eminente critico di quell’altro grande romanzo di ricerca (sempre che, come quello di Tolkien, sia effettivamente un romanzo), La ricerca del tempo perduto. “I grandi libri”, dice Shattuck, “influenzano l’economia della vita di molti individui permettendo loro di raggiungere esperienze personali prima, in maniera più diretta e con meno tentativi. Questo senso, questo segreto, è ciò che permette a certe persone di vivere la vita in ogni momento come un’avventura…”6 Decisamente appropriato.

Per concludere - a parer mio in modo definitivo e, per i critici modernisti di Tolkien, nella maniera più dannosa possibile – abbiamo l’affermazione di Paul Ricoeur (che coniò il termine ‘ermeneutica del sospetto’) che ciò di cui si ha bisogno ora è una “seconda ingenuità”, una riscoperta post-critica della meraviglia, che costituirà la vera maturità.”7 Il contrasto con l’ossessione infantile di certi critici di assumere il ruolo di “adulto nella stanza” difficilmente potrebbe essere più nitido.

Il lavoro di critici che nuotano contro la corrente prevalente, come Tom Shippey, indubitabilmente, insieme a Verlyn Flieger, John Garth e altri, ha fatto anch’esso la differenza. Sono grato che questo evento abbia creato l’opportunità di onorarli e, con loro, onorare Tolkien stesso.

Grazie.



[traduzione autorizzata di Simone Bonechi di Patrick Curry “Remarks for Tolkien event at the Weston Bodleian Library” (29.10.2015) ]



1 Patrick Curry, “The Critical Response to Tolkien’s Fiction”, pp. 369-338 in Stuart D. Lee (ed.), A Companion to J.R.R. Tolkien (Oxford: Wiley Blackwell, 2014).

2 Tom, Shippey, J.RR.. Tolkien Author of the Century (London: HarperCollins, 2000); pg. 316 (trad. it. J.R.R Tolkien Autore del Secolo; Milano, Marietti, 2004; pg. 309)

3 Nicholas Lezard in The Guardian (03 aprile 2010).

4 John Mullan, “The triumph of fantasy fiction”; The Guardian, (03 aprile 2015)

5 David Foster Wallace, in the New York Times (20 agosto 2006).

6 Roger Shattuck, Proust’s Binoculars: A Study of Memory, Time and Recognition in À la récherche du temps perdu (London: Chatto & Windus, 1964): pg. 134.

7 Paul Ricoeur, The Symbolism of Evil, transl. Emerson Buchanan (Boston: Beacon Press, 1967): pp. 351-352.