Aa. Vv., (a cura di Stuart D. Lee), A Companion to J.R.R. Tolkien, Wiley-Blackwell, 2014. xxxiv, 568 pp.



di Andrew Higgins



Dato che questa è una recensione per il Journal of Tolkien Research, un volume dal titolo A Companion to J.R.R. Tolkien1 sarà indubbiamente di interesse per studiosi ed eruditi di Tolkien. Recensire un così lungo lavoro accademico è davvero una sfida ugualmente scoraggiante e stimolante. La ragione di ciò è duplice: 1) lo spessore accademico del testo e 2) l’eminente formazione di studiosi di Tolkien che hanno contribuito con le loro conoscenze specifiche ad ognuno dei trentasei saggi di questo volume.

Per quanto riguarda il primo motivo, lo spessore di questo volume, è davvero una buona notizia sapere che dopo tanti anni di garbato (e non così garbato) sdegno o rimozione da parte delle istituzioni “accademiche” e dalla “intellighenzia culturale” (un’area che Patrick Curry ha indagato a fondo nel suo capitolo in questo volume), J.R.R. Tolkien è stato posto nel pantheon accademico degli autori trattati dalla collana Wiley-Blackwell; questo è l’ottantanovesimo volume di questa collana e Tolkien è l’unico scrittore fantasy trattato ad oggi.

Per quanto riguarda il secondo motivo, il calibro e la reputazione degli autori che hanno contribuito a questo volume, ammetto di provare una sensazione simile a quella che Tolkien stesso dovette provare quando, prima come Lettore a Leeds e poi come Professore ad Oxford, gli fu chiesto di recensire il lavoro dei più grandi filologi e lessicografi del tempo in tre successive pubblicazioni di The Year’s Works in English Studies (1924-26). A Tolkien fu chiesto di valutare e criticare i lavori di Jespersen, Bloomfield, Ekwall e così via, e mi riempie di una simile trepidazione dover fare lo stesso coi lavori di Shippey, Flieger, Fimi, Rateliff, Nag, eccetera.

Prima di imbarcarci nella recensione vera e propria, penso sia importante fare un plauso al curatore Stuart D. Lee per la strutturazione globalmente tematica di questo volume, che offre un profilo di Tolkien progressivamente come uomo, studioso, erudito e mitopoietico. Ho trovato l’ordine in cui Lee organizza questi saggi molto utile per dimostrare l’interrelazione tra i due aspetti dominanti nella vita di Tolkien; da un lato la sua carriera accademica come filologo, studioso del Medioevo ed insegnante, dall’altro il suo lavoro, lungo una vita, di creatore di miti.

Il Tolkien “uomo” è introdotto ed analizzato con una breve ma convincente biografia di John Garth. Il profilo che Garth traccia riunisce una gran quantità di informazioni biografiche note che sono state pubblicate a partire dalla biografia autorizzata di Tolkien del 1977 a firma di Humphrey Carpenter, incluse le altre informazioni che sono state aggiunte da allora, compresa la fruttuosa ricerca dello stesso Garth sugli inizi di Tolkien. Garth allega inoltre un grafico assai utile che descrive la vita di Tolkien e la sua produzione creativa, e che è una risorsa inestimabile cui fare riferimento mentre si leggono i saggi che seguono.

Il Tolkien “accademico” è raccontato in tre saggi. Il primo di questi è “Academic Writings”2 di Thomas Honegger, che si concentra sui saggi accademici di Tolkien, molti dei quali non furono pubblicati se non molti anni dopo che li ebbe scritti e divulgati. Honegger dimostra l’influenza accademica di Tolkien come proveniente da due vie. La prima è l’influenza diretta tramite la consegna di questi saggi agli studiosi e ai circoli, mentre la seconda, più indiretta, è quella attraverso il suo lavoro con – e l’influenza che esercitò su – gli studenti che facevano le proprie ricerche, inclusa la supervisione da parte di Tolkien di molte delle tesi del Baccalaureato in Lettere (un’area degli studi su Tolkien di cui John Rateliff ha esplorato un aspetto nel suo saggio “The Missing Women: J.R.R. Tolkien’s Lifelong Support for Women’s Higher Education”3 nel volume del 2015 Perilous and Fair: Women in the Works and Life of J.R.R. Tolkien4). Honegger, in modo assai utile, divide la sua ricerca degli specifici saggi accademici scritti da Tolkien in tre ampie categorie: 1) “Tolkien sulla Scrittura”, 2) “Tolkien sul Linguaggio” e 3) “Tolkien sulla Letteratura”; ma dimostra anche come tutti questi saggi abbiano un fondamento comune nella ricerca combinata di letteratura e linguaggio che Tolkien portò avanti. Per sottolineare ciò, Honegger guarda giustamente al seguito del poema La battaglia di Maldon, scritto da Tolkien, “Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm” (pubblicato nel 1953), come ad uno dei migliori esempi della combinazione operata da Tolkien tra le informazioni storiche, l’analisi filologica e la co-creazione letteraria. Sebbene molti dei saggi accademici di Tolkien non ebbero un gran numero di lettori fino a quando Tolkien non divenne un famoso scrittore di fantasy, Honegger riesce con convinzione ad affermare che il saggio di Tolkien “Beowulf: mostri e critici” fu un’opera determinante negli studi sul Beowulf all’epoca in cui Tolkien lo scrisse. Honegger fa un interessante confronto tra la ricezione di questo saggio con quella dello scritto del 1939 “Sulle fiabe”, che praticamente non ebbe alcun impatto sulla cultura accademica finché non venne pubblicato in Albero e foglia nel 1964. Honegger usa l’accoglienza riservata a “Sulle fiabe” per sottolineare il fatto che molti dei saggi accademici di Tolkien sono stati riscoperti al giorno d’oggi grazie ai lettori delle opere di fiction di Tolkien e pertanto sono stati visti attraverso la lente dei suoi lavori creativi, dunque non necessariamente nel modo in cui Tolkien stesso aveva pianificato o concepito la loro accoglienza quando inizialmente li scrisse e li divulgò.

In “Tolkien as Editor”5, Tom Shippey esplora il ruolo di Tolkien come curatore di testi medievali. Shippey nota curiosamente che “la concezione di Tolkien del proprio ruolo professionale non si centra sul giudizio critico o sull’interpretazione, ma sulla redazione, con la traduzione quale sottoprodotto più personale del suo lavoro editoriale” (41). Shippey mette a fuoco come l’interesse più forte di Tolkien si concentrasse sui dettagli linguistici e il suo famoso “niggling” gli diede gli strumenti mentali per un’analisi ravvicinata dei testi medievali che stava curando. Shippey acutamente dà importanza al talento e all’esperienza che Tolkien acquisisce in questo processo: “Poteva prendere in esame ogni parola ed iniettare tutte le sue conoscenze linguistiche nelle derivazioni etimologiche. Per questo generazioni di studiosi ed eruditi devono essergli grati” (46). Shippey mette inoltre come punto chiave il fatto che fu la conoscenza dei dettagli linguistici a dare al Tolkien curatore la fiducia nell’apportare cambiamenti e ricostruire passaggi che sentiva non essere stati copiati correttamente dagli scribi che avevano lavorato con l’originale o con le copie del manoscritto originale. A sostegno di questa tesi, Shippey porta diversi esempi di testi in inglese antico (l’Esodo, il Frammento di Finnsburg ed il Beowulf) ai quali Tolkien apportò estesi emendamenti, talvolta rasentando la completa riscrittura. Shippey dimostra anche come l’interrogativo di Tolkien su cosa gli scribi ci abbiano lasciato ci conduce all’interesse creativo di Tolkien nel ricostruire e rivisitare le “memorie di mitologie scomparse” (54). Shippey conclude la sua eccellente analisi indicando che Tolkien non fu soltanto un curatore di manoscritti medievali ma anche un traduttore di quei lavori che originariamente curò (es. Sir Gawain, Beowulf, Pearl). La conclusione di Shippey non è soltanto interessante ma apre nuove strade di ricerca sulla comparazione tra le redazioni di Tolkien e le sue traduzioni in inglese.

Nel terzo saggio della sezione “Manoscritti – Usi ed utilizzi” il curatore del compendio, Stuart D. Lee, si dedica con attenzione alle interconnessioni presenti in questo volume esplorando il ruolo dei manoscritti nella carriera di Tolkien come medievalista e come elemento para-testuale del suo legendarium. Come medievalista, Tolkien lavorò coi materiali originali di molti manoscritti e Lee esplora i più importanti tra quelli analizzati da Tolkien in originale o tramite l’uso, emergente negli anni Trenta, di facsimili fotografici. Il punto interessante di Lee, che segue l’idea introdotta da Shippey nel capitolo precedente, è che sia stato attraverso lo studio di questi manoscritti che Tolkien imparò a conoscere le insidie della storia testuale. Lee sostiene la propria idea citando alcune selezioni di una conferenza inedita di Tolkien dal titolo “Old English Textual Criticism”6 (Bodleian MS Tolkien A15/1), nella quale Tolkien indaga il modo in cui il processo di trasmissione testuale dalla fonte primaria (l’autore) allo scriba, o riproduttore, possa portare ad errori che dovranno essere affrontati dal lettore e dal critico. Lee offre poi diversi esempi-chiave della produzione creativa di Tolkien per mostrare come egli ripensò ed incorporò il proprio lavoro coi manoscritti e con la trasmissione degli stessi nel suo legendarium. Anzitutto Lee esplora il “Libro di Mazarbul” come uno dei migliori esempi di un manoscritto che appare nella narrazione e che al contempo Tolkien tenta di realizzare fisicamente per essere usato come elemento paratestuale nel libro stampato (cosa che purtroppo non accadde a causa dei costi di pubblicazione). Tolkien si spinse, nella rappresentazione fisica delle pagine di questo documento d’archivio ritrovato, al punto di bruciare il bordo delle pagine, facendo così pensare alle pagine del manoscritto bruciato del Beowulf. Secondariamente, Lee cita la complicata storia della trasmissione testuale che Tolkien inventa per Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli ed i materiali progettati per il “Silmarillion”, attraverso l’invenzione di una tradizione di trasmissione di manoscritti iniziata con “Il Libro Rosso dei Confini Occidentali”. Lee conclude suggerendo che l’uso fantasioso della struttura manoscritto/trasmissione da parte di Tolkien, presa dal suo lavoro accademico sui manoscritti medievali, non solo imiti la pratica degli studiosi di antichità, ma alimenti la sua subcreazione e il suo essere creatore di mondi. Nell’ultima sezione Lee esplora la natura dei manoscritti di Tolkien e che cosa uno studioso o un accademico che studia questo autore debba affrontare quando tenta di decifrare e decodificare i documenti originali dello stesso Tolkien. Lee conclude questa sezione con un’analisi illuminante e assai utile di uno specifico gruppo di documenti riguardanti lo sviluppo della trama dell’Antro di Shelob all’interno del Signore degli Anelli. Ho trovato l’analisi di Lee quale testo di base utile per capire come lavorare sui manoscritti di Tolkien e poi come risorsa molto importante per gli studiosi e gli eruditi, ma sento che molto altro può essere esplorato in questo contesto. Questa sezione meriterebbe una trattazione a parte più dettagliata, anziché essere messa alla fine di questo saggio. Infatti una guida ed un’indagine più completa di come navigare attraverso le stratificazioni dei manoscritti di Tolkien (come fece Douglas Charls Kane nel 2009, nel suo pioneristico lavoro sulla costruzione testuale del Silmarillion, Arda Reconstructed7) meriterebbe un libro da sola.

Dopo aver dato a studenti ed eruditi un’introduzione alla vita di Tolkien e alle fondamenta intellettuali ed accademiche sulle quali Tolkien fu inizialmente addestrato e sulle quali studiò e insegnò quotidianamente, la sezione successiva di questo Compendio si concentra sulle “opere del suo cuore”, cioè sul lavoro, lungo tutta una vita, che Tolkien opera sul suo legendarium. Il primo saggio, di Carl Phelpstead, “Myth-making and Sub-Creation”8, esplora a fondo la fondazione contestuale della mitopoiesi di Tolkien esaminando criticamente “Sulle fiabe” e la poesia di accompagnamento “Mitopoeia”, che Tolkien scrisse per illustrare il suo processo mitopoietico. Questa sezione prende spunto da quella precedente per esplorare in che modo la formazione filologica e i metodi accademici di Tolkien abbiano permeato l’evoluzione della sua mitologia. “Middle-earth Mythology: An Overview”9 di Leslie A. Donovan indaga convincentemente alcuni dei temi chiave del legendarium di Tolkien mentre delinea i principali archi narrativi della mitologia di Tolkien. Donovan dimostra come la mitologia di Tolkien sia conforme alle mitologie del mondo primario, in quanto narrazione di un antico passato che spiega l’origine della vita, dell’universo e del mondo naturale. Donovan si concentra efficacemente su alcuni temi generali che pervadono il legendarium di Tolkien: il legame coevo con il linguaggio d’invenzione (indagato in modo più dettagliato nei saggi successivi), il ruolo del fato e della libera volontà, ed infine l’interessantissima tesi che, nell’inventare la propria mitologia, Tolkien abbia sintetizzato quegli aspetti delle storie del mondo primario che per lui contavano di più. In tal modo ella conclude che la mitologia di Tolkien rispecchia una rielaborazione dei temi classici e medievali che più hanno ispirato le prime riflessioni e l’immaginazione di Tolkien. Molti di questi temi chiave sono quelli che Tolkien ha continuato a ri-immaginare e rielaborare lungo tutta la vita nel suo lavoro sui miti.

Dopo l’esplorazione delle fondamenta del Tolkien creatore di miti, il volume si occupa delle ramificazioni più importanti del legendarium stesso. Gergely Nagy esplora quei testi mitici che sono divenuti noti col nome di “Silmarillion” in “The Silmarillion: Tolkien’s Theory of Myth, Text and Culture”10. In questo capitolo Nagy è alle prese, in modo magistrale, con il nodo cruciale di come lavorare coi materiali del “Silmarillion”. Vale a dire che ci sono due “testi” che negli studi su Tolkien sono chiamati con questo nome. C’è il corpus del lavoro, lungo una vita, che Tolkien opera sul suo legendarium e che ora possediamo grazie alla serie History of Middle-earth11, e poi c’è il Silmarillion, cioè il testo curato da Christopher Tolkien e pubblicato nel 1977, che rappresenta una fetta della mitologia di suo padre presa principalmente dalle versioni dei materiali successive al Signore degli Anelli. Nagy combina questi due “testi” in quello che egli chiama il corpus dei materiali del “Silmarillion” e giunge all’interessante assunto che nelle analisi e negli studi su Tolkien entrambi questi testi sono stati usati da lettori e studiosi come spessore mitologico per Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli. L’analisi di Nagy mostra come questa combinazione di corpus testuali costituisca una “grand narrative” che governa e spiega tutte le cose. Ho trovato il lavoro di Nagy sulla stratificazione testuale assai interessante. La sua analisi apre diverse aree-chiave a studenti ed eruditi che vogliono esplorare il modo in cui questi due “testi” del corpus del “Silmarillion” sono stati usati e contestualizzati dai lettori (in special modo ora che molte più delle diverse versioni del legendarium di Tolkien sono state pubblicate). Nagy conclude la sua penetrante analisi enfatizzando l’importanza di entrambi i “testi” per il corpus del legendarium; dato che questi testi “rappresentano tutto ciò di cui Tolkien cercava di parlare, professionalmente e creativamente; sono grandi storie di eroismo, bene e male, separazioni tragiche ed eucatastrofe combinate assieme – ma è anche qualcosa di molto più grande; una vera e propria teoria di come le culture operano per mantenere e trasmettere le loro tradizioni, per ricordare, capire e continuamente ricostruire il loro passato” (117). Il punto conclusivo di Nagy suggerisce diverse aree-chiave di lavoro che deve essere fatto negli studi tolkieniani riguardo a come l’analisi e la contestualizzazione dell’opera di Tolkien abbia potuto essere influenzata dalla versione o dal gruppo di versioni del testo usate in questi studi; ponendo una questione di principio: su quali fondamenta testuali stiamo costruendo gli studi su Tolkien?

The Hobbit: A Turning Point”12 di John D. Rateliff pone la prima opera di fiction di Tolkien, che parzialmente fuoriuscì dall’evoluzione della sua mitologia della Terra di Mezzo, come un punto di svolta nella carriera di Tolkien. Rateliff propone e dimostra con successo che fu con Lo Hobbit che Tolkien “’trovò la sua voce’ e produsse quel che ora noi riconosciamo, retrospettivamente, come un’opera tipicamente e caratteristicamente tolkieniana” (119). Sono rimasto particolarmente intrigato dal confronto conclusivo che Rateliff fa tra Lo Hobbit e le altre opere in cui gli autori “trovano la propria voce” ed iniziano poi a scrivere i loro più grandi capolavori, come James Joyce che trovò la propria voce con il Ritratto dell’artista da giovane e poi scrisse il suo primo capolavoro, l’Ulisse; e Mark Twain, la cui opera iniziale Tom Sawyer lo condusse al suo capolavoro Huckleberry Finn.

John R. Holmes affronta “l’opera del cuore” di Tolkien nella sua analisi del Signore degli Anelli. Egli inizia concentrandosi sulla lunghezza effettiva dell’opera magna di Tolkien: 516.000 parole che, Holmes ci informa, si collocano tra Infinite Jest di David Foster Wallace (484.000 parole) e I miserabili di Victor Hugo (531.000 parole). Dopo averci dato un convincente riepilogo della trama ed alcuni elementi chiave della narrativa di Tolkien (il viaggio, il ritmo dell’azione e del riposo, lo scenario cartografico, l’intreccio del racconto ed altri elementi dei romanzi basati sulla ricerca), Holmes perde un poco nella sua esplorazione del testo del Signore degli Anelli fianco a fianco con i film di Peter Jackson (un tema che è trattato in modo più completo nel capitolo sugli “Adattamenti”, più avanti in questo volume). Ho trovato quest’improvviso salto dall’analisi dei testi di Tolkien a quella della narrativa dei film di Jackson un po’ stridente e sono stato contento quando Holmes si è tirato fuori dal cinema per tornare all’analisi testuale grazie alle altre aree che egli esplora in questo capitolo, ossia la natura del Signore degli Anelli, come disse Tolkien “linguistica ispirata”, il ruolo dell’allegoria nel testo (e la “cordiale” antipatia di Tolkien per essa) e la caduta, la moralità e le macchine; ogni sezione offre alcune analisi davvero interessanti ed originali. Una delle aree più intriganti dell’analisi di Holmes in questo capitolo è la sua contestualizzazione della conclusione del Padre Nostro – “e non ci abbandonare alla tentazione, ma liberaci dal male” – quale motto che abbraccia tutto il Signore degli Anelli. Holmes ci offre l’utile argomentazione che dagli Anni Trenta agli Anni Sessanta Tolkien lavorò ad una storia del Padre Nostro per una lettura inedita (che oggi si trova alla Biblioteca Bodleiana in MS Tolkien A 18), nella quale egli traduceva dal greco la parola per “tentazione” (peirasmos) come “una prova o esame (di forza o di valore)”. Holmes paragona ciò alla prova di Frodo a Monte Fato, che egli fallisce. Tuttavia, in virtù della grazia che egli ha mostrato verso Gollum, Frodo è alla fine liberato dal male, suggerendo che la vera prova per Frodo non era quella di distruggere l’Anello, ma quella di non uccidere Gollum (e una simile prova l’ebbe Bilbo, ed entrambi la superarono). L’indagine di Holmes qui e la contestualizzazione con il lavoro che Tolkien stava svolgendo sul Padre Nostro durante la scrittura del Signore degli Anelli aprono alcune interessanti aree per ulteriori ricerche degli studiosi.

In “Unfinished Tales and the History of Middle-earth: A Lifetime of Imagination”13 Elizabeth A. Whittingham usa efficacemente lo sviluppo da parte di Tolkien del suo ciclo narrativo su Túrin Turambar quale esempio di come Tolkien sviluppò e rivisitò elementi della mitologia nel corso del tempo. La stoccata del ragionamento di Whittingham, che lei ha convintamente proposto, è che la traiettoria creativa di Tolkien nel suo legendarium può essere a grandi linee vista come una progressione da un’iniziale fantasiosità ad una più tarda moralità e seriosità. Alcuni interessanti esempi che l'autrice cita includono l’idea iniziale di Tolkien di far purificare Túrin e Nienor nel Fôs’Almir per poi diventare splendenti Valar in mezzo agli altri beati.(Racconti perduti, pagg. 115-116). Più tardi egli avrebbe rivisitato la storia per dare ai personaggi un epilogo più tragico senza alcun significato evidente di deificazione. Un altro buon esempio che Whittingham cita è il cambiamento della natura dei Valar di Tolkien, che partono come pantheon di déi e dee classici e norreni (sposati e con figli!) e proseguono diventando più remoti e quasi angelici.

In “‘The Lost Road’ and ‘The Notion Club Papers’: Myth, History and Time-travel”14, Verlyn Flieger esplora magistralmente queste due opere incompiute che hanno la quantità maggiore di elementi fantascientifici tra le opere di Tolkien. Ella dimostra convincentemente la natura interdipendente di queste opere, ciascuna delle quali esprime temi ed idee attorno le identità seriali e la memoria ereditaria. Flieger mostra inoltre come in ciascuna opera Tolkien esplori altre opzioni per una storia che potesse fare da cornice, attraverso la quale raccontare e trasmettere la sua mitologia. Flieger conclude la sua analisi giungendo ad un punto molto importane ed offrendo parole di saggezza per gli eruditi: che è “alla vastità di Tolkien, non alla sua padronanza, che gli studiosi più seri della sua opera dovrebbero prestare attenzione qui” (172).

In “’Minor’ Works”15 Maria Artamonova indaga le altre opere creative di Tolkien (Le lettere di Babbo Natale, Roverandom, Mr. Bliss, Il cacciatore di draghi, “Foglia” di Niggle e Il fabbro di Wootton Major). Ella dimostra convincentemente come queste opere possano essere viste come riflesso delle idee e dei temi che Tolkien esplora nel suo legendarium, ma mostra anche come esse siano opere importanti per proprio diritto, dando agli studenti un punto di vista interno ai metodi operativi di Tolkien e, specialmente nel suo “’Foglia’ di Niggle” e Il fabbro di Wootton Major, ad alcune delle sue preoccupazioni e delle sue ansie riguardo alla sua esperienza col pericoloso reame di Faërie.

Il capitolo finale di questa sezione indaga due elementi cruciali che possono essere trovati lungo tutto il tessuto stesso del legendarium di Tolkien. In “Poetry”16 Corey Olsen dimostra abilmente la passione di Tolkien per la poesia e l’utilizzo di questa nel suo lavoro creativo. Olsen inizia dimostrando come la prima poesia pubblicata da Tolkien, “Goblin Feet”17 (1915) mostri già alcune delle caratteristiche chiave della sua arte poetica successiva; e cioè: giocosità di suono e ritmo, rapidi cambiamenti di metrica che amplificano gli spostamenti tonali nel contenuto dei versi, e la narrazione di elementi mitici attraverso la poesia. Olsen mostra in modo persuasivo che, specialmente nel Signore degli Anelli, la poesia è vicina al cuore dell’espressione subcreativa di Tolkien, e che le poesie all’interno delle sue opere in prosa sono più simili ad “arterie dentro il corpo della storia che gioielli sulla sua superficie” (177). Olsen fornisce ai lettori una lettura ravvicinata assai brillante della poesia “Dove sono cavallo e cavaliere” e ne analizza la metrica poetica per illustrare il modo in cui Tolkien rispecchia il tema del trapasso in poesia col progressivo disfacimento della metrica strettamente allitterativa anglosassone con la quale egli inizia il componimento. Olsen giunge ad un punto essenziale, che dovrebbe essere ascoltato da tutti quelli che saltano le poesie di Tolkien per giungere “alle parti belle”, che questa poesia non è una digressione nel testo, bensì un’espansione dell’idea già in svolgimento mentre Gimli, Gandalf, Legolas ed Aragorn si stanno approssimando ad Edoras – la prospettiva di un uomo (Aragorn) sul passare del tempo. Questa poesia si inserisce nella – ed è parte integrale della – prosa narrativa. Olsen insiste che “l’uso di Tolkien della forma poetica serve per connettere alla sua prosa narrativa le grandi, potenti e mitiche idee, per dare ai suoi lettori un punto di vista vantaggioso dal quale essi possano capire e connettersi con i temi principali” (180). Olsen indaga inoltre la poesia di Tolkien sul tema delle fate “Errantry”, con il suo “schema ritmico insistente ed ambizioso”, e le varie versioni attraverso cui è passata dalla sua prima composizione nel 1933 fino al suo aspetto previsto nel Signore degli Anelli in qualità di canzone da far cantare a Bilbo. Olsen conclude in modo interessante affermando che le poesie di Tolkien lasciano intravedere spesso quei temi che saranno sviluppati attraverso la prosa narrativa. Olsen termina con l’importante dichiarazione che “è nella sua poesia, la sua ‘canzone di parole’ (Il Silmarillion, pg. 33), che noi possiamo giungere vicini alla sorgente della subcreazione tolkeniana” (188).

In “Invented Languages and Writing Systems”18 Arden R. Smith esamina in modo esperto gli elementi che sono il nucleo del processo creativo di Tolkien: l’invenzione del linguaggio ed una mitologia ad esso concomitante. Proprio come Olsen fa un appello ai lettori a non ignorare la poesia di Tolkien, così Smith illustra quanto sia cruciale il ruolo dell’invenzione del linguaggio per comprendere il legendarium di Tolkien. Come ha detto Tolkien, Il Signore degli Anelli è in gran parte un “saggio di estetica linguistica” – per creare un modo dove il saluto elfico “Elen síla lúmenn’ omentielvo” possa essere usato ed avere senso. (Lettere, pag. 219-220). Smith indaga l’esplorazione di Tolkien nell’estetica linguistica e la sua esperienza con l’invenzione del linguaggio nel suo scritto del 1931 “A Secret Vice” nel quale Tolkien indaga i suoi primi tentativi con l’invenzione di un linguaggio e la sua comprensione del fatto che i linguaggi inventati hanno bisogno di una mitologia di base concomitante. Smith, che è uno dei membri dell’Elvish Linguistic Fellowship19 scelta da Christopher Tolkien per curare e pubblicare le dettagliate carte di suo padre sui linguaggi, attinge in modo proficuo dall’esperienza acquisita lavorando con questi testi per sintetizzare il processo che portò Tolkien all’invenzione del suo linguaggio, dando così una motivazione alle diverse stratificazioni di bozzetti incompiuti per i suoi linguaggi: “Egli inizia generalmente con materiali assai dettagliati di fonologia storica, dopodiché può spostarsi alla sezione morfologica, prima della fine dalla quale il manoscritto genericamente degenera in una mole di note incomplete, in uno scarabocchio virtualmente illeggibile. Egli raramente ha scritto qualcosa di sintassi. A quel punto aveva probabilmente già iniziato a revisionare tutto quanto dall’inizio” (204). Smith va avanti in questa utile analisi delle diverse fasi cronologiche dell’invenzione del linguaggio elfico da parte di Tolkien. Egli inizia, curiosamente, dal mondo linguistico del Signore degli Anelli ed esplora la natura dei linguaggi che Tolkien ha usato in questo testo e delle due importanti appendici paratestuali che egli ha incluso nel Ritorno del Re, sul linguaggio e sui sistemi di scrittura della Terra di Mezzo. Successivamente Smith ritorna alle prime versioni dei linguaggi indagando il linguaggio elfico nei Racconti ritrovati (Qenya e Gnomico). Dopodiché Smith procede in avanti nell’ordine cronologico, esplorando l’espansione negli Anni Trenta dei suoi nessi di linguaggi in “The Etymologies”, “Lhammas” e “The Tree of Tongues”20. L’analisi precisa di Smith aiuta studenti ed eruditi a comprendere la progressione nello sviluppo, da parte di Tolkien, di quel che lui avrebbe chiamato il suo “nesso di linguaggi” (Lettere, pag. 141), partendo dalle forme più familiari del Signore degli Anelli e poi mostrando dove taluni modelli principali di invenzione si sono evoluti. Smith pesca inoltre dalla sua esperienza di curatore per esplorare i sistemi di scrittura, al contempo variegati e pluristratificati, inventati da Tolkien per esprimere foneticamente i suoi linguaggi elfici; i due principali sono le “tengwar” (da scrivere con penna o pennello) e il Cirth (o rune da scolpire): per ambedue Tolkien creò un mito d’origine nel suo legendarium. Smith conclude la sua analisi decisiva con l’interessante commento che “Tolkien originariamente non intendeva pubblicare i suoi alfabeti inventati o i suoi linguaggi inventati, ma oggi il suo ‘vizio segreto’ è conosciuto in tutto il mondo” (214).

La quarta sezione di questo volume, “Context”21, offre una serie di eccellenti saggi che esplorano le diverse aree contestuali alle quali Tolkien lavorò, quelle dalle quali fu influenzato e, infine, in che modo tutte e due queste cose contribuirono alla – e gli fecero reinterpretare elementi della – sua opera mitopoietica. Il primo raggruppamento di queste indagini riguarda i linguaggi chiave, per i quali Tolkien aveva una passione e i quali, in molti casi, contribuirono alla sua erudizione. Il secondo gruppo esplora alcune influenze decisive della letteratura, del passato e contemporanea, su Tolkien e l’eredità che l’opera creativa di Tolkien ha lasciato ai moderni autori di fantasy. Con vero spirito tolkeniano ognuno dei capitoli di questa sezione abbraccia ed esplora a fondo elementi sia della “letteratura” sia del “linguaggio” nel contesto del suo soggetto.

In “Old English” Mark Atherton mostra che l’attrazione giovanile di Tolkien per l’antico inglese mentre era alla King Edward’s School era basata sulla sua attrazione per i suoni e le sillabe; è ciò di cui Atherton ci informa asserendo che “le parole e le frasi, le forme grammaticali di tutta la struttura dell’antico inglese… questo era inglese, ma l’inglese nella sua prima forma” (217). L’amore di Tolkien e lo studio dell’antico inglese, sia come lingua che come letteratura, sarebbe stato un fattore dominante nella sua intera carriera accademica e così pure nei suoi scritti d’immaginazione. Atherton sottolinea utilmente un testo abbastanza inesplorato di Henry Bradley, The Making of English22 (1904), un testo che Tolkien lesse nei suoi anni di formazione e che indaga le origini germaniche dell’anglosassone. Atherton giunge all’interessane deduzione che gli studi dell’antico inglese svolti da Tolkien furono per lui l’inizio e lo stimolo per imparare le altre lingue germaniche, compreso il gotico, e quando egli giunse all’Exeter College di Oxford era uno studente universitario che conosceva già le opere di molti dei grandi filologi del tempo, inclusi Bradley, Sweet e Joseph Wright, col quale alla fine studiò. Fu questo lavoro congiunto che lo motivò e gli insegnò il metodo comparativo della filologia e il concetto di tracciabilità delle parole fin dalle loro proto-origini. Atherton indaga poi l’impatto degli studi di Tolkien e dell’insegnamento dell’antico inglese sulla sua opera creativa. Si concentra sull’invenzione dei nomi delle località attuate da Tolkien nel suo legendarium; la Contea, Michel Delving ed i nomi che si possono trovare a Rohan, proprio come Tom Shippey ha osservato, ricordano la gente e le terre della poesia anglosassone, con tipologie di nomi tratte dal dialetto del Mercia delle West Midlands, l’antica lingua della contea natale di Tolkien che Atherton identifica come “patriottismo locale”; in pratica, dettaglio e consistenza forniscono un’autenticità palpabile al mondo che egli sta cercando di creare” (224). Più avanti, Atherton esplora il tentativo di Tolkien di ri-immaginare e riproporre personaggi, elementi e “storie perdute” delle leggende germaniche ed anglosassoni nelle prime versioni dell’impianto della sua mitologia, per collegare i suoi miti alla letteratura perduta dell’Inghilterra. Atherton guarda inoltre con molto interesse alla poesia anglosassone Maxims II, che Tolkien conosceva bene e parte della quale fuoriesce dalla bocca di Barbalbero, in qualità di sorgente gnomica (cioè “detto saggio”) che risuona assieme ad alcuni dei temi chiave che Tolkien esplora nel suo legendarium, inclusi “potere sovrano, governo, uomo e donna e loro ruolo nel mondo; il mondo naturale e la sua flora e fauna; e il cosmo e la collocazione dell’umanità all’interno del cosmo” (227).

Nella sua indagine sulla lingua inglese media come contesto ed influenza, Elizabeth Solopova riassume esattamente il contributo di Tolkien allo studio del medio inglese come “meticoloso e di solito altamente tecnico, volto a rendere i testi accessibili e intelligibili sia per i lettori professionisti che per i non professionisti” (235). Ella qualifica inoltre il contributo di Tolkien allo studio del medio inglese principalmente in qualità di critico testuale e linguista storico, ma ancor prima come lessicologo storico. L’analisi di Solopova è molto utile per evidenziare come, mentre l’antico inglese fu la prima forma di lingua inglese studiata da Tolkien, furono il suo lavoro e le sue analisi sui testi in medio inglese che portarono alle sue prime opere accademiche e ai primi scritti pubblicati, a partire dal suo A Middle English Vocabulary23 del 1922 e continuando con diversi saggi cruciali, inclusa la pubblicazione del suo “The A/B Theory”24, il quale suggerisce che in alcune forme e tradizioni di scrittura a mano l’antico inglese sia sopravvissuto all’invasione normanna – “la lingua scritta condivisa da un comunità letteraria” (232). Solopova indaga inoltre il contributo sostanziale di Tolkien agli studi su Chaucer, incluso il suo saggio “Chaucer as Philologist: The Reeve’s Tale”25, nel quale egli indaga l’uso da parte di Chaucer del dialetto nordico del medio inglese per generare effetti comici per i due studenti di origini nordiche di questa fabliaux. Tolkien riuscì a ricostruire tutte le forme di nordico che trovò nella versione originale dei manoscritti di Chaucer. Solopova giunge anche all’interessante deduzione che quando Tolkien iniziò la propria carriera accademica molti dei testi fondamentali in medio inglese (come Pearl e Sir Gawain e il Cavaliere Verde) non erano disponibili in traduzioni moderne e Tolkien vide il compito di curare questi testi come una necessità urgente per gli studi medievali; un concetto che enfatizzò nel suo articolo del 1925, “Some Contributions to Middle English Lexicography”26, nel quale egli dichiarò inoltre il bisogno urgente della compilazione di un dizionario di medio inglese. Questa attenzione e questo lavoro sul medio inglese, specialmente negli anni Venti e Trenta, influenzò anche alcuni elementi del suo legendarium e Solopova evidenzia giustamente come esempio chiave di questo l’influenza esercitata del testo in medio inglese Sir Orfeo, che Tolkien curò e tradusse, come importante fattore che motivò la sua scelta di mutare gli elfi dalle minuscole creature fatate ispirate all’età vittoriana/eduardiana di “Goblin Feet”27 e dei Racconti perduti alle ben più nobili creature del suo legendarium successivo, inclusi Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli.

Tom Birkett ci dà una buona panoramica dell’influenza dell’antico norreno sulle opere creative ed accademiche di Tolkien. L’intuizione della sua analisi si concentra in modo curioso sull’impatto degli studi da parte di Tolkien della letteratura in antico norreno sui suoi processi creativi e sul suo stile di scrittura, più che sull’analisi delle fonti d’ispirazione. Birkett si concentra specialmente sull’opera tolkeniana La leggenda di Sigurd e Gudrun quale esempio di come Tolkien creasse le storie colmando le lacune dei testi, in questo caso il suo tentativo di ricostruire le parti perdute del Codex Regius e risolvere il “Köningsproblem” della parte mancante della storia di Sigurd il Volsungo. Birkett sottolinea il metodo di Tolkien, che incrocia il soggetto di quest’opera col proprio stile poetico e ricostruisce il componimento originario con la metrica della poesia in antico norreno, come un grande esempio di incontro tra il Tolkien accademico ed il Tolkien creatore; egli completa le parti mancanti di questa leggenda ricreandole con una “coerenza interiore di realtà” della forma e dello stile della poesia in antico norreno.

Leena Kahlas-Tarkka, in “Finnish: The Land and Language of Heroes”28 esplora letteratura e linguaggio del finnico, che fu fin dagli inizi un’influenza chiara e pervasiva nel Tolkien creatore di miti e inventore di linguaggi. Kalhlas-Tarkka mostra come, nel caso di questa influenza del finnico sul Tolkien, la “letteratura” venga di sicuro prima del “linguaggio”: prima con la scoperta giovanile del Kalevala nell’edizione del 1907 di W.F. Kirby, e poi col suo tentativo di imparare il finnico all’Exeter College con la Finnish Grammar29 di C.N.E. Elliot (1890). Ella giunge all’importante conclusione che la prima fonte d’attrazione per Tolkien fu quel corpo di testi che provenivano dai racconti orali del popolo finnico e di quello careliano raccolti da Elias Lönnrot, e solo dopo egli giunse a dare un’analisi approfondita di come questi poemi, o runi, siano stati prodotti sia per merito della tradizione orale, sia per la creazione (o rielaborazione) da parte di Lönnrot. Nella sua analisi Kahlas-Tarkka segue la tradizione che vuole che Lönnrot abbia subcreato in molti modi il mondo del Kalevala, unendo assieme i runi e dando loro una struttura. Kahlas-Tarkka inoltre indaga la caratteristica, unica nel ciclo delle storie del Kalevala, che maggiormente attrasse Tolkien, cioè la storia di Kullervo (che si trova nei Runi 31-36). Ella esplora in modo approfondito la tradizione orale e testuale di questo ciclo specifico per mostrare come la storia di Kullervo fu, essa stessa, il prodotto di diverse tradizioni orali fuse assieme. Questa fusione creò quel tipo di incongruenze e lacune narrative che, come hanno dimostrano gli studi accademici di Verlyn Flieger in The Story of Kullervo30, furono alquanto attraenti per il giovane Tolkien. Kahlas-Tarkka conclude la sua florida indagine dell’influenza esercitata dal finnico dedicandosi al “linguaggio” finnico stesso, che Tolkien ammirava per la sua “notevole singolarità” e per il suo isolamento dalle lingue indoeuropee. Ella cita alcune poesie elfiche di Tolkien, come “Oilima Markirya” (“L’ultima arca”), per illustrare l’attenzione di Tolkien alla bellezza della fonetica finnica e per suggerire che furono queste poesie ad “offrire a Tolkien la sua vacanza a lungo attesa, lontano dalle strutture tradizionali e dal concetto di versi a cui la maggior parte della gente è abituata” (269-70). Kahlas-Tarkka termina il suo interessante saggio facendo un intrigante confronto in parallelo tra la sensibilità dei film di Jackson, che hanno avuto il merito di portare nuovi lettori ai libri, con l’interesse dei lettori di Tolkien per le sue fonti, che li conduce al finnico Kalevala – un’opera che nella Finlandia di oggi solo pochi leggono dall’inizio alla fine; Tolkien fu utile per generare nuovo interesse verso di essa. L’idea conclusiva di Kahlas-Tarkka suggerisce altre ricerche sulla ricezione da parte dei lettori, ricerche che potrebbero essere intraprese per esplorare in che modo l’uso di parole-chiave da parte di Tolkien abbia aiutato oggi a riportare in vita quei testi e far sì che l’attenzione del pubblico si focalizzasse su di essi – come viene indagato nel testo, ad opera di Stuart Lee ed Elisabeth Solopova, The Keys of Middle-earth31 (recentemente ristampato in una seconda edizione ampliata).

L’intrigante traiettoria contestuale del saggio “Celtic: ‘Celtic Things’ and ‘Things Celtic’—Identity, Language, and Mythology”32 di J.S. Lyman-Thomas indaga l’evoluzione del punto di vista di Tolkien, dal disprezzo per le “cose celtiche” al rispetto per la “cultura celtica”. Lyman-Thomas inizia la sua analisi affermando giustamente che, grazie alle recenti ricerche di Verlyn Flieger, Dimitra Fimi e Carl Phelpstead, l’impatto della cultura celtica è diventata un’area degli studi su Tolkien che si sta espandendo e che diverrà un’area fondamentale per i futuri studiosi dell’autore. Il punto cruciale raggiunto da Lyman-Thomas è quello di equiparare l’interesse di Tolkien nelle cose “celtiche”, e specialmente nel gallese, con l’identificazione propria di Tolkien con i suoi antenati provenienti dal Regno di Mercia sulle terre di confine delle marche gallesi. Lyman-Thomas analizza il discorso inaugurale fatto da Tolkien alla conferenza di O’Donnell del 1955 “Inglese e Gaelico”, nella quale Tolkien dichiarò che sentiva il gaelico come la propria “lingua madre” e che c’era una “predilezione linguistica innata” per il gaelico in lui, che rappresentava un’eredità condivisa, un retaggio filologico dei Britanni. Lyman-Thomas argomenta in modo convincente che “Tolkien comprese che il linguaggio è una dimensione dell’identità, una parte integrante del modo con cui le storie vengono narrate ed è indistricabile dalla cultura di cui le storie parlano” (276). Poi prosegue contestualizzando ciò in modo efficace con le radici “celtiche” dell’invenzione di linguaggi tolkeniana, e dimostrando brevemente in che modo gli elementi dei linguaggi “celtici” hanno dato forma alla struttura ramificata dei linguaggi elfici inventati, che sono iniziati con lo Gnomico e che poi, in fasi di sviluppo successive, sono diventati Noldorin e Sindarin. Lyman-Thomas termina questa analisi giungendo all’interessante conclusione che entrambi i linguaggi che Tolkien scelse come modelli fonetici per i suoi linguaggi elfici – finnico e gaelico – erano in pericolo di essere emarginati a causa di una soppressione politica e culturale. Un punto importante che certo ha bisogno di ulteriori ricerche ed indagini.

Secondo il mio parare uno dei saggi di maggior risalto in questo volume è “The English Literary Tradition: Shakespeare to the Gothic”33 di Nick Groom. In questo saggio Groom indaga ed offre nuovi approfondimenti di un periodo della letteratura solitamente meno associato a Tolkien (1550-1800) ed apre diversi nuovi filoni di esplorazione interessanti per studenti ed eruditi. Il recente approfondimento di Groom va a toccare le potenziali influenze sull’opera creativa di Tolkien da parte di Spenser, Dryden e Milton. Groom esplora inoltre le connessioni tra Tolkien e William Blake, che fu inventore di una propria mitologia e che utilizzò anche gli elementi visivi come parte della stratificazione del suo mondo secondario. Groom giunge all’importante conclusione che anche Blake, coi suoi “oscuri mulini satanici”, influenzò l’ideologia ecologista nel Romanticismo, che evidentemente entrò nelle riflessioni di Tolkien sulla natura e in quelle immagini orribili che gli hobbit trovano al loro ritorno nella Contra nel Ritorno del Re. Groom ci fornisce anche alcune intuizioni uniche riguardo all’influenza delle opere degli studiosi di antichità del diciottesimo secolo sul processo creativo di Tolkien. Ad esempio egli cita Thomas Percy, le cui collezioni di vecchie ballate, le Reliquies of Ancient English Poetry34 (1765) non solo riesce a riconquistare parte del perduto passato dei popoli settentrionali, ma include anche una profusione di quei tipi di paratesti (prefazioni, note, appendici, glossari) che sarebbero diventati caratteristici dell’opera creativa di Tolkien. Groom contestualizza inoltre le opere di quegli “inventori”, come Thomas Chatterton e James Macpherson, che usano l’“estetica degli studiosi di antichità” per inventare miti e leggende e, come Tolkien, sentono di trascrivere un passato che era già lì. In quest’ultima parte del saggio Groom combina magistralmente i vari aspetti dell’influenza del gotico (sia come linguaggio perduto che come movimento letterario) su Tolkien. Groom, in modo assai utile, definisce l’immaginazione gotica come un “sostenere il progresso e, simultaneamente, piangere per il passato: una soppressione controllata della carneficina della storia che tuttavia ci ha condotti al giorno presente” (296). Per Tolkien fu questo “lamento per il passato” che gli rese il gotico e i linguaggi gotici così attraenti. Groom suggerisce che l’attenzione di Tolkien per il medievalismo è in linea col primo racconto gotico – Longsword di Thomas Leland (1762) – “il primo romanzo storico medievale” (300). Groom conclude la sua ampia e dettagliata indagine definendo Tolkien come “un medievalista attivo, che cercava di riconnettersi e di far rivivere le antiche identità dei popoli settentrionali” (300) e suggerisce che così facendo egli seguiva la tradizione dei goticisti cattolici quali Pugin, Burke e Richard Verstegan, la cui opera, A Restitution of Decayed Intelligence in Antiquities35 (1605), tenta di ricostruire le origini della nazione germanica e del cattolicesimo aborigeno nella lingua inglese basandosi su evidenze filologiche e leggendarie (300). L’eccellente ricerca di Groom non solo getta nuova luce sull’influenza di questo periodo di sviluppo letterario così poco spesso associato a Tolkien, ma offre un contesto maggiormente allargato sulla passione specifica di Tolkien e sulla sua esplorazione dei popoli gotici e del loro linguaggio; è una ricerca che dovrebbe definitivamente stimolare ulteriori ricerche in entrambe queste aree (di certo è stata stimolante per me!).

Rachel Falconer indaga le opere fondazionali della fiction fantasy che vennero prima di Tolkien in “Earlier Fantasy Fiction: Morris, Dunsany and Lindsay”36. Il suo interessante approccio in questa analisi si concentra innanzitutto sull’opera fondamentale di ognuno di questi autori ed indaga l’impatto che essa ebbe su Tolkien. Per quanto riguarda Morris, Flaconer esplora il suo The House of the Wolfings37 (1889) come testo (assieme al suo seguito, Le radici delle montagne, del 1889) che fu ispirato dalle opere sull’antichità di scrittori quali Edward Gibbon e che tratta di un “resoconto quasi-storico delle comunità che un tempo abitarono l’Europa” (307). Per sostenere questa analisi Falconer cita alcuni passaggi chiave dal testo, per mostrare in che modo Morris inventa l’idea di una perduta comunità germanica unita idealizzata nella quale, come Tolkien, egli esplora le idee di amore e amicizia. Per quanto riguarda Lord Dunsany, Falconer seleziona il suo romanzo del 1924 La figlia del Re degli Elfi ed indaga, sia in Tolkien che in Dunsany, la descrizione che gli autori fanno delle terre di Faërie, giungendo alla conclusione che entrambi mettono nel loro nucleo contestuale un senso di nostalgia e perdita, ciascuno nel suo specifico stile. Falconer mette interessantemente a confronto l’influenza su Tolkien della descrizione di Faërie da parte di Dunsany con A Voyage to Arcturus38 di Lindsay (1920), che Falconer descrivere come “fantasy in qualità di mezzo per il disincanto” (313) e cita diverse tematiche del fantasy di Lindsay che ella descrive come una spinta “nella direzione della fantascienza” all’interno del contesto dell’opera di Tolkien. Penso che la parte più interessante di quest’analisi sia il confronto che Falconer fa tra il doppio senso di spazialità nella narrazione di Tolkien e in quella di Lindsay: nel primo c’è la storia orizzontale della cerca (o anti-cerca), mentre nel secondo il tema del mondo verticale e del viaggio dantesco verso le profondità del male e verso le vette della beatitudine (314). Quel che Falconer riesce a dimostrare è che Tolkien pescò dalla letteratura che aveva apprezzato in qualità di lettore molti temi e tropi e li ripensò e li ripropose – e quelli proposti sono solo tre esempi cruciali tra i tanti.

Due saggi guardano a diversi aspetti dell’influenza degli autori contemporanei sull’opera creativa di Tolkien. David Bratman inizia con la comunità di scrittori da cui Tolkien era circondato: gli Inklings. Quel che ho trovato di maggiormente utile nell’analisi di Bratman degli Inklings è la misurata trattazione della questione su come comprendere l’impatto degli Inkling sulle opere creative del gruppo. Questione che si riduce all’opposizione influenza vs. incoraggiamento, e Bratman sembra posizionarsi maggiormente sul lato dell’incoraggiamento. Egli supporta la sua tesi anzitutto citando la reazione di Warnie Lewis (fratello di C.S. Lewis e a sua volta uno degli Inklings) ad una delle prime opere sugli Inklings, The Precincts of Felicity39 di Charles Moorman (1966), il quale inoltre aggiunse erroneamente T.S. Eliot e Dorothy L. Sayers al gruppo degli Inklings e li chiamò collettivamente “i cristiani di Oxford”. Warnie reagì a questo libro dicendo che sebbene fosse vero che gli Inklings “erano tutti credenti”, sembrava “molto traballante” da parte di Moorman la tesi che gli Inklings fossero “una mente collettiva che ha influenzato il lavoro di ciascun Inkling” (318). Bratman supporta inoltre la sua tesi menzionando un’affermazione assai citata di C.S. Lewis su Tolkien: “Nessuno hai mai influenzato Tolkien, tanto varrebbe tentar d’influenzare un grafobrancio40. Noi ascoltavamo la sua produzione, ma potevamo incidere su di lui al massimo con un incoraggiamento” (318). Nella seconda parte di questo saggio Bratman guarda, sebbene più a grandi a linee, agli altri autori contemporanei che potrebbero aver influenzato Tolkien e che furono influenzati da lui o dall’ascesa della letteratura fantasy di cui l’opera di Tolkien fu precursore, inclusi E.R. Eddison, T.H. White e Mervyn Peake. Bratman suggerisce in modo affascinante che gli Inklings fecero un primo passo nello “stabilire un canone per il fantasy adulto” (326). Questo canone continuò ad essere approfondito negli anni Sessanta e Settanta con scrittori come L. Sprague de Camp e Lin Carter, i quali svilupparono entrambi antologie fantasy all’avanguardia come la serie dei Ballantine Adult Fantasy41, e con l’ascesa del fantasy “sword and sorcery”42, che Bratman definisce interessantemente come ispirato allo stile narrativo e ai temi di Tolkien e, al contempo, come un allontanamento da essi. Bratman conclude esplorando intrigantemente l’opera degli Inklings nel contesto dei tre più grandi scrittori contemporanei collegati a Weird Tales: l’americano H.P. Lovecraft, Clark Ashton Smith e Robert E. Howard, i quali, come gli Inklings, appartenevano ad un circolo letterario simile, e incoraggiarono l’opera letteraria l’uno dell’altro. Sebbene vi siano alcuni interessanti paralleli, Bratman fa l’importante precisazione che “a differenza degli Inklings, [Lovecraft, Smith ed Howard] erano scrittori pulp professionali che si sostentavano, a volte a fatica, macinando storie per un penny a parola” (329). Soprattutto Lovecraft echeggia Tolkien quando costruisce nelle sue storie di ambientazione contemporanea un senso di profondità storica, nella maggior parte dei casi orrorifica. L’indagine di Bratman sulle opere di Clark Ashton Smith è assai più breve e sottolinea la forma distintiva della sua prosa, il suo stile adorno e lapidario. Dato il suo uso di terre immaginarie e toponimi (ad es. Hyperborea e Zotique), mi è rimasta la sensazione che ci fosse qualcosa di più che si potesse esplorare qui ed uno sguardo sull’opera di Smith in rapporto a Tolkien e agli Inklings potrebbe aprire altre interessanti aree d’indagine.

In “Modernity: Tolkien and His Contemporaries”43 Anna Vaninskaya affronta la questione dell’influenza dei contemporanei da una prospettiva più ampia, anzitutto evocando l’impostazione del corpus del legendarium tolkeniano da parte di Christopher Tolkien come “l’incessante ‘costruzione’ del suo mondo, che si estendeva dalla giovinezza di mio padre alla sua vecchiaia” (citato in The Peoples of Middle-earth44, x), per porsi una domanda cruciale e cercare di rispondervi: chi sono esattamente i contemporanei di Tolkien? Vaninskaya svolge la sua indagine suddividendo la ricerca dei “contemporanei” in utilissimi periodi cronologici, con un’esaustiva analisi di quali specifiche forze contemporanee influenzarono l’opera creativa di Tolkien. Ella conclude con l’interessante osservazione che Tolkien fu un “modernista vittoriano” e sostiene questa sua tesi suggerendo che l’opera di Tolkien, in tal senso, si concentra su un’intertestualità “ricca di allusioni dai variegati gradi di complessità” (364) che riflettono le coeve opere moderniste di Joyce, Eliot e Pound, anche se Tolkien, come afferma Vaninskaya, si focalizzava soprattutto sulla “ricostruzione del XIX secolo” rivisitando e riqualificando frammenti di miti al fine di inventare un “proprio mito indipendente” (ibid.) e si opponeva ai modernisti che invece erano interessati alla decostruzione del mito. Sebbene Tolkien sia stato influenzato dal modernismo, il suo proposito era quello dell’interesse vittoriano per le origini e gli interi. (364). Penso che Vaninskaya abbia avuto delle intuizioni interessanti ed abbia costruito un’argomentazione persuasiva, nonché un intrigante modo di osservare Tolkien e la sua opera nel contesto del modernismo vittoriano.

Dimitra Fimi in “Later Fantasy Fiction: Tolkien’s Legacy”45 esplora l’impatto e l’influenza di Tolkien sulle successive produzioni di fiction fantasy e delinea magistralmente la “lunga ombra” che Tolkien citando una recente osservazione di Terry Pratchett, che paragonò Tolkien all’immagine del Monte Fuji nelle stampe: talvolta distante, talvolta vicino e talvolta del tutto assente, ma solo perché l’artista si trovava proprio sul Monte Fuji (335). Fimi suggerisce che la reazione a Tolkien come “fondatore” del fantasy moderno sia stata duplice: da un lato il desiderio di imitarlo, dall’altro l’impulso a reagire contro il suo schema per creare della letteratura fantasy che avesse un proprio carattere ed una voce distintiva. Fimi mostra la prima delle due reazioni indagando alcuni dei diretti “imitatori” di Tolkien (collettivamente noti come “Tolk-cloni”) quali La spada di Shannara di Terry Brook (1977) e contestualizzando queste opere con l’espressione coniata da Ursula K. Le Guin di “fantasy mercificato”, ossia scritto per alimentare il mercato dei libri fantasy che funzionano come Il Signore degli Anelli, ma che sono creati per “rispondere alle esigenze del pubblico”. Fimi, in modo assai utile, collega questo tipo di produzioni ad un Tolkien visto come una figura paterna freudiana e cita la “ansia da influenza” di Harold Bloom per descrivere il modo in cui alcuni autori fantasy siano dovuti venire a patti con e/o abbiano dovuto affrontare il lascito di Tolkien. Successivamente Fimi si concentra sugli scrittori di fantasy moderno che sono “riusciti a trovare la loro voce indipendente ed hanno creato opere fantasy originali che hanno condotto il genere in nuovi, eccitanti territori” (337). Un gruppo contemporaneo di scrittori britannici di fantasy che Fimi analizza sono Susan Cooper, Alan Garner e Diana Wynne Jones, i quali interessantemente furono studenti di Tolkien o parteciparono ad alcune delle sue lezioni; in ognuna delle loro opere essi scelgono di ri-immaginare o riproporre elementi del folklore o dei miti britannici. Fimi nota che una delle sorgenti cruciali di ispirazione per i soggetti ed i temi medievali che questi autori trattano in modo fantasioso viene dai loro studi ad Oxford basati sul programma del corso di Inglese che Tolkien e Lewis avevano stilato. Tuttavia, in modo curioso, Fimi giunge alla conclusione che sia Cooper che Gamer scelsero di concentrarsi di più sugli elementi “britannici” del mito e del folklore, come in The Owl Service46 (1967) di Garner o nel ciclo arturiano di Cooper Il risveglio delle tenebre (1965-77). Fimi analizza e valuta la natura del fantasy di questi scrittori e suggerisce in modo curioso che mentre Wynne Jones scrive “high fantasy” o fantasy immersivo, sia Garner che Cooper tendono a scrivere un fantasy più di formazione o di passaggio, nel quale c’è un’interazione tra il paesaggio e la fantasia; specialmente Garner è interessato alle “connessioni tra il mito, il folklore, il paesaggio e le antiche rovine della Gran Bretagna” (340; una citazione che evoca Tolkien!) e vede nel “low fantasy” (o fantasy di formazione) un modo per esplorare questa interazione. Quando Fimi si rivolge a quel che apparentemente è il diretto erede americano di Tolkien, Ursula K. Le Guin, dimostra con attenzione in che senso l’opera della Le Guin sia e non sia simile a quella di Tolkien, nel modo in cui ella dà forma alla storia e alla cultura del suo mondo secondario, Earthsea, prendendo spunto dalla meditazione della Le Guin sull’origine dei maghi come il Gandalf di Tolkien. Nei libri di Earthsea della Le Guin il problema della razza e della storia culturale sono centrali e, così come l’opera creativa di Tolkien si basa sul suo approccio filologico alla mitologia, analogamente quella della Le Guin ha le sue radici nel background archeologico ed antropologico dell’autrice; pertanto vi è un diverso approccio a temi quali razza, cultura e genere. Fimi indaga inoltre l’influenza di Tolkien sulla letteratura fantasy moderna attraverso il manifesto dello stesso Tolkien sul fantasy, “Sulle fiabe”. Correttamente, Fimi identifica quest’opera come un’impalcatura importante, cruciale per analizzare la letteratura fantasy moderna, pervasiva anche nei termini che ha introdotto, quali “mondo primario”, “mondo secondario”, “subcreazione” ed “eucatastrofe”, che sono entrati nel vocabolario del XXI secolo per esprimere, esplorare ed analizzare la letteratura fantasy. Correlata a questa idea, Fimi giunge all’importante deduzione che “Sulle fiabe” di Tolkien abbia creato un seguito di altri scrittori fantasy (come Le Guin, Wynn Jones e Cooper) che, a loro volta, hanno analizzato il proprio lavoro e quello di altri autori fantasy in diversi importanti saggi riflessivi: ad esempio Il linguaggio della notte (1979) della Le Guin e, in modo assai più umoristico, la Tough Guide to Fantasyland47 di Wynne Jones (1998). Fimi dimostra inoltre in che modo, assieme a “Sulle fiabe” di Tolkien, questi saggi riflessivi abbiano costruito il corpo di un’analisi teoretica che vada verso la risposta alla domanda “a cosa serve il fantasy?”. Nell’ultima sezione, “Fantasy in the Twenty-first Century48”, Fimi esplora le opere di Philip Pullman e J.K. Rowling. La trilogia Queste oscure materie di Pullman è una reazione polemica al sottotesto cristiano in Tolkien e Lewis (344), che attribuisce al realismo la propria opera. In modo utile, Fimi cita un’intervista nella quale Pullman dice “Sto cercando di scrivere un libro su che cosa significhi essere umani, crescere, soffrire ed imparare. La mia disputa con molti (ma non tutti) fantasy è che si possiede questa meravigliosa cassetta degli attrezzi e non si fa altro che costruire giochi sparatutto” (345). A seguire Fimi contestualizza in che modo la serie di Harry Potter della Rowling indaghi un tema cruciale presente anche in Tolkien, ossia la questione dell’origine del male. Fimi colpisce nel segno quando dice che questa questione è altrettanto importante per il ventunesimo secolo, o forse anche di più, ora che “il male sta diventando una categoria sempre più difficile da definire comprendere” (346). Fimi dimostra in modo convincente in che modo l’attenzione della Rowling al tema della morte si accordi con la rivendicazione, fatta da Tolkien in diverse sue lettere ed interviste, che Il Signore degli Anelli parli della morte e del desiderio di immortalità.

L’ultima sezione del volume, “Critical Approaches”49, offre una serie di saggi riflessivi che scavano a fondo nei temi e nelle tendenze dell’opera creativa di Tolkien, nella sua accoglienza e negli studi su di essa. In “The Critical Response to Tolkien’s Fiction50”, Patrick Curry affronta il tema (menzionato all’inizio di questa recensione) di come l’opera creativa di Tolkien si stata accolta da critici e studiosi. Curry allestisce il palcoscenico per la sua analisi citando utilmente la descrizione che W.H. Auden fa del Signore degli Anelli: “raramente ricordo un libro su cui ho avuto così tante discussioni violente. Nessuno sembra averne un’opinione moderata” (370). Questo tipo di reazioni all’opera di Tolkien hanno formato la base dell’opinione critica sui suoi lavori creativi la quale è stata, come Curry è riuscito ad evidenziare, perlopiù negativa, portando Curry ad affermare, all’inizio del suo saggio: “pertanto, non ci sono giustificazioni ad un così ampia e generale ostilità verso la fiction di Tolkien” (370). Egli cita Alfred Duggan, che ironicamente commentò: “Questo non è quel tipo di opera che molti adulti rileggerebbero da cima a fondo per più di una volta”. Curry indaga inoltre la critica di Edwin Muir, Catherine Simpson e, ovviamente, la recensione di Edmund Wilson, “Oo, Those Awful Orcs!”51, nella quale il Signore degli Anelli fu stroncato come “trash bambinesco”. Curry mostra come questo tipo di critiche accademiche continuarono anche nelle recensioni del legendarium di Tolkien pubblicato postumo, i cui toni furono al livello di quelli di Christine Brooke-Rose, Rosemary Jackson e Fred Inglis, che chiamarono Tolkien fascista negli anni Ottanta. Ovviamente Curry ci tiene a sottolineare che questa reazione critica negativa è stata contrastata dalla crescente massa di studi accademici come quelli di Tom Shippey, Veryn Flieger ed altri che hanno cercato di opporsi a queste risposte critiche, concentrandosi sui testi che Tolkien scrisse. La risposta dei critici fu esacerbata negli anni Novanta, quando Il Signore degli Anelli fu votato come il miglior libro in un sondaggio svolto dalla catena britannica Waterstones (1996) e nel “The BBC Big Read” (2003); votato da, come dissero i critici ostili, i fan di Tolkien (non dai Lettori). La monante critica ostile all’opera di Tolkien continuò ad essere contrastata dagli studiosi di Tolkien, come da Tom Shippey in J.R.R. Tolkien autore del secolo (2000), o come la più equilibrata valutazione di Tolkien fatta da Clute e Grant nell’Enciclopedia del Fantasy (1997). Curry conclude quest’analisi mirata e bilanciata sulla risposta della critica a Tolkien con una citazione riguardante il Signore degli Anelli ad opera dell’editore di Tolkien, Rayner Unwin: “un libro davvero ottimo in modo curioso” (384).

In “Style and Intertextual Echoes”52, Allan Turner esplora l’uso, da parte di Tolkien, del linguaggio per creare stili letterari differenti nella sua opera creativa. Seguendo ciò che Curry ha detto nel suo saggio sul “criticismo”, Turner afferma che lo stile letterario di Tolkien è uno dei bersagli principali delle recensioni critiche; egli cita in particolare il commento di Burton Raffel del 1968: “Lo stile di Tolkien è così semplice e privo di trame narrative convenzionali che Il Signore degli Anelli non può essere considerato ‘letteratura’” (389). Dopo aver offerto una buona panoramica di alcune analisi fondamentali dello stile letterario di Tolkien – Tom Shippey, Brian Rosebury e, più recentemente, Steve Walker col suo illuminante The Power of Tolkien’s Prose53 (2009) – Turner divide utilmente la sua breve ma convincente panoramica sullo stile di Tolkien in base alle caratteristiche linguistiche, quali: fonologia (il suono delle parole), lessico (la scelta delle parole), sintassi (la disposizione grammaticale delle proposizioni). Curiosamente, Turner limita inizialmente la propria analisi alle sole opere pubblicate da Tolkien durante la vita, quelle che, come Turner spiega, “furono completate in modo per lui soddisfacente”. Tuttavia, Turner si contraddice immediatamente aggiungendo alla sua analisi Roverandom e giustificando questa scelta con l’affermazione che Roverandom fu pubblicata con soltanto alcune minime emendazioni (390). Egli confonde ulteriormente quest’analisi includendo Il Silmarillion e sostenendo questa scelta con l’affermazione che la versione che è stata pubblicata da Christopher Tolkien è assai vicina all’opera creativa di suo padre. Di sicuro questo testo in particolare presenta un considerevole ammontare di emendazioni rispetto ai testi originali da cui Christopher Tolkien attinse per edificare un testo pubblicabile nel 1977! Questo mi ha lasciato perplesso sul perché Turner abbia voluto mettere come primo punto della propria indagine il voler trattare esclusivamente le opere pubblicate durante la vita di J.R.R. Tolkien. Il cambiamento di stile di Tolkien, dalle storie per bambini di Roverandom e della prima parte dello Hobbit (inclusa l’intrusiva voce narrante delle storie per bambini) alla complessità e agli arcaismi dello “stile aulico” della seconda parte dello Hobbit – coi nomi propri ispirati al Beowulf (un interessante spunto per ulteriori ricerche), del Signore degli Anelli e del Silmarillion. L’analisi di Turner riesce a dare specifici approfondimenti ai tratti stilistici più significativi che rappresentano l’evoluzione dello stile di prosa di Tolkien da Lo Hobbit a Il Signore degli Anelli. Egli cita l’uso da parte di Tolkien di differenti registri linguistici per caratterizzare i diversi popoli, indagato da Shippey nella scena del Consiglio di Elrond (citato da: Shippey, J.R.R. Tolkien autore del secolo, pagg. 69 e segg.). Turner dà ai lettori una buona esegesi di come Tolkien riesca a far ciò nel Signore degli Anelli e di come egli usi gli arcaismi per contestualizzare le persone che stanno parlando, come ad esempio il lessico arcaico dei Cavalieri di Rohan che si abbina alle parole prese dell’anglosassone. Turner conclude giungendo all’importante conclusione che, esplorando l’uso degli stili letterari da parte di Tolkien, “non stiamo facendo una dichiarazione sulla qualità; dire se un testo è buono o meno non è lo scopo della stilistica, bensì analizzare le sue caratteristiche e basta” (402). Turner termina offrendo un buon concetto da ricordare mentre si analizza lo stile di Tolkien: “Qualsiasi giudizio qualitativo sullo stile deve essere basato su un’attenta considerazione dei dettagli del testo, come delineato qui, e non sui pregiudizi infondati del critico” (ibid.)

In “The Hero’s Journey”54 Anna Caughey esplora i diversi tipi di viaggi dell’eroe nel Signore degli Anelli. Ella usa come cornice contestuale il modello della “cerca romantica” che si può trovare in diversi testi in medio inglese che Tolkien avrebbe letto. Inizia indagando l’espediente letterario dell’entrelacement o interlacciamento, nel quale gli eroi della cerca si separano e vi sono due o più storie interconnesse che hanno luogo in spazi diversi, ma che avvengono simultaneamente nel tempo. Sono rimasto sorpreso, qui, dal fatto che la Caughey non si sia allacciata al pionieristico lavoro di Richard C. West sull’uso di questo espediente letterario nel Signore degli Anelli (“The Interlace Structure of The Lord of the Rings55, del 1974), sebbene ella citi un’altra opera di West nella sua bibliografia. Caughey mostra come nel Signore degli Anelli questo interlacciamento abbia inizio con la rottura della Compagnia, che Caughey definisce come il momento in cui la storia diventa “una vera narrativa basata su una cerca” e che si presenta ai lettori come una serie di viaggi di eroi. Per il resto del saggio Caughey si concentra in modo utile su tre tipologie di “viaggio dell’eroe”. La prima, connessa a Bilbo (nello Hobbit) e a Merry e Pipino (nel Signore degli Anelli), è quella del viaggio dell’eroe “andata e ritorno”: l’eroe che va nel mondo, vive avventure impegnative e ritorna a casa gravido di tesori, ma non troppo cambiato dall’esperienza. Molto interessantemente, Caughey contestualizza le esperienze di Merry e Pipino con quelle della cerca dell’eroe immacolato dei poemi medievali (King Horn, Havelock e Il racconto di Sir Gareth di Malory), nei quali questi cavalieri, in un primo momento della loro cerca si ritrovano nel “Bosco dell’Errore” nel quale vi sono distrazioni momentanee e confusione prima del trionfo finale: le ombre della Foresta di Fangorn, anche se in questo caso la location diventa un punto cruciale nella crescita di Pipino e Merry, sia fisica che eroica! Mi ha meno convinto invece la presentazione di Caughey di Merry e Pipino come “figure liminali”, in particolare a causa dell’azione diretta che entrambi svolgono nella storia. Il secondo tipo di viaggio dell’eroe viene chiamato da Caughey “l’eroe spezzato”, ossia Frodo, ed egli compara la cerca di questi con quella di Sir Gawain e Lancilotto nel Queste del Saint Graal: tutti loro alla fine non riescono nel compito che è stato affidato loro. Questo non significa tuttavia che la cerca sia stata vana (infatti Frodo è alla fine lo strumento grazie a cui Gollum cade): l’eroismo viene dal sacrificio dell’eroe che deve pagare il prezzo finale su di sé – come Frodo che salva la Contea, ma non per sé. Infine Caughey indaga il viaggio dell’eroe della tipologia “la cerca del patriarca”, che ella collega sia ad Aragorn che a Sam. In questo viaggio il giovane ed inesperto uomo che emerge dalle sue avventure non è solo glorificato, ma anche trasformato: egli si muove attraverso una fase di maturità sociale ed emotiva che lo adatta al ruolo di marito e padre. Caughey offre alcuni interessanti contesti da indagare circa il ruolo dell’eroe nel legendarium di Tolkien, sebbene io attenda una trattazione più approfondita sugli eroi al di fuori dello Hobbit o del Signore degli Anelli, come Túrin, Beren ed Earendel.

Christopher Garbowski affronta abilmente il delicato e complesso tema del male. Assai utilmente per gli studenti e gli eruditi, Garbowski si occupa dei diversi aspetti del male che Tolkien reinterpretò nel suo legendarium e li delinea. Da un lato la visione agostiniana, esplorata tra gli altri da Shippey, secondo la quale il male è assenza, poiché il male non può creare ma soltanto imitare e pervertire il bene; Tolkien immaginò questo tipo di male col concetto degli spettri. La visione opposta, ripescata dal pensiero manicheo, dice che il male è una forza vivente reale e bisogna resisterle attivamente.

In “Nature”56 Liam Campbell indaga il ruolo che la natura gioca nell’opera di Tolkien, la quale è zeppa di descrizioni del mondo naturale – vibranti brani molto dettagliati su alberi, flora, fauna, montagne, terre selvagge, fiumi, fenomeni atmosferici, paludi, ecc. – strati di ricche descrizioni narrative che aggiungono alla “consistenza interiore della realtà” e al mondo secondario un paesaggio che si può visitare come se fosse un luogo reale. Campbell collega giustamente le descrizioni naturali in Tolkien con il suo amore per la natura, specialmente per gli alberi, ed il suo desiderio di difendere i diritti delle cose naturali, che proviene dalla sua educazione nel “borgo pastorale” di Sarehole. Campbell mostra come, nella sua opera creativa, Tolkien permetta alla natura di parlare per sé stessa e cita, per supportare la propria tesi, la creazione degli Ent così come quella di Tom Bombadil, Baccador e, negli aspetti negativi, il Vecchio Uomo Salice e il Caradhras (nei confronti del quale Gandalf si riferisce come ad un “lui”). Campbell conclude convincentemente la sua indagine con l’affermazione che “La Terra di Mezzo è molto più che un fondale sul quale si svolge l’azione: è viva e senziente. Gli elementi naturali e i loro aspetti vengono forniti di carattere, azioni e persino personalità” (440). Tolkien credeva inoltre che, vedendo questi ordinari elementi naturali attraverso la lente del fantasy, si sarebbe potuto osservarli in modo nuovo, quel che egli chiama “recupero” in “Sulle fiabe”.

In “Religion: An Implicit Catholicism”57 Pat Pinsent indaga l’implicito (opposto ad esplicito) ruolo del Cristianesimo in Tolkien, dando per cominciare un background alla sua educazione di tipo romano-cattolica, con una particolare attenzione assai singolare verso l’influenza delle opere del fondatore dell’Oratorio di Birmingham, il cardinal John Henry Newman. Pinsent fa notare che uno dei precetti fondamentali degli insegnamenti di Newman che Tolkien deve aver incontrato durante il suo periodo all’Oratorio dev’essere stato il concetto di santità potenziale nelle persone ordinarie che fanno cose ordinarie e l’abbracciare “in un’amicizia e in un affetto intimi coloro che sono immediatamente vicini a noi” (448-49). Sebbene il saggio di Pinsent inizi con queste intriganti idee e con la promessa di vederle contestualizzate nell’opera creativa di Tolkien, ho visto le sue argomentazioni divenire progressivamente più confuse, a partire da quando tenta di spiegare in che modo i concetti di Newman siano entrati nello Hobbit: è un cosa in cui riesce bene, anche se ho trovato il suo suggerimento di intertestualità religiosa tra il saluto di Bilbo ai nani e il “Dominus vobiscum” della Messa cattolica un po’ troppo forzato. Mi spiace che nel resto del saggio la sua analisi vada fuori tema nel cercare altri parallelismi espliciti con gli argomenti religiosi, come la data della caduta di Sauron e quella dell’Annunciazione di Cristo (25 marzo), che Pinsent indica come “certamente non una coincidenza” (456), o gli attributi in comune tra Cristo e Gandalf. Mi sarebbe piaciuto di più vedere, da parte di Pinset, un’indagine su come Tolkien abbia incorporato nel tessuto della sua mitologia elementi impliciti del credo cristiano e degli insegnamenti ricevuti, piuttosto che un catalogo di corrispondenze apparentemente esplicite ma un po’ discutibili.

Janet Brennan Croft esplora abilmente quale impatto ebbe la guerra nella vita di Tolkien e in che modo essa percorra, come tematica, tutta la sua opera creativa. L’eccellente analisi di Croft descrive l’esperienza di Tolkien durante la Prima Guerra Mondiale, nella quale egli fu testimone di “incredibili massacri ed impossibili eroismi” (470), come qualcosa che ironicamente non diede a Tolkien motivo di disperazione, bensì “un profondo senso di speranza e di fiducia nella provvidenza, a dispetto di tutto ciò che la guerra poteva fare” (ibid.). Croft giunge inoltre all’interessante deduzione che per Tolkien l’aggiunta di più macchinari nella guerra (i carri armati della Prima Guerra Mondiale, che Tolkien reinventa in chiave mitologica nella “Caduta di Gondolin”, e i bombardamenti aerei su Londra della Seconda Guerra Mondiale) poneva le distanze con l’eroismo di guerra. Croft spiega questo come un’idea che “cancella le differenze tra giorno e notte, estate e inverno, che nei tempi primitivi limitavano le guerre a particolari stagioni e favorivano il ritmo naturale di ‘un tempo per la guerra e un tempo per la pace’” (ibid.). Croft suggerisce inoltre alcune interessanti vie per future indagini sul rapporto tra l’opera accademica di Tolkien e la guerra, incluso il suggerimento di Michael Drout di insegnare Tolkien assieme ai poeti della Prima Guerra Mondiale o quello espresso da Tom Shippey durante la conferenza del 2005 Return of the Ring58 (a cui il sottoscritto ha partecipato) che sarebbe interessante indagare la connessione tra Tolkien e William Joseph Slim, un compagno di classe di Tolkien alla King Edward School e suo camerata nel Corpo di Addestramento Ufficiali, che divenne feldmaresciallo durante la Seconda Guerra Mondiale (471).

Nel suo saggio “Women”59 Adam Roberts si confronta con l’opinione popolare (ed erronea!) che le donne non siano ben rappresentate nell’opera creativa di Tolkien, prima descrivendo e poi confutando le due polemiche principali: per prima cosa la questione dell’“avventura per maschi” e poi, in modo più ampio, la definizione dell’opera di Tolkien come “conservatrice, cattolica, tradizionale, una visione del mondo in cui le donne, sebbene care agli uomini, interpretano, per così dire, il ruolo del secondo violino nel complesso musicale della vita” (473). Roberts suggerisce che la prima di queste polemiche sia possibile soltanto si legge unicamente Lo Hobbit, nel quale i personaggi femminili sono soltanto menzionati, ma mostra chiaramente come questo non sia il caso del Signore degli Anelli. Qui Roberts fornisce un utile sommario dell’opera critica che è stata fatta sui principali personaggi femminili di Tolkien (Galadriel, Éowyn, Shelob, Arwen) e delle teorie che affermano che Tolkien avesse una maggiore considerazione per le donne e le vedesse come “esistenti su un piano più alto, più puro, più spirituale e più bello” (475). Nella sua analisi, Roberts si sofferma soprattutto su una delle critiche cruciali ai personaggi femminili di Tolkien: la loro passività. Roberts tenta di spiegare in modo più ampio le implicazioni del passaggio di Éowyn, alla fine del Signore degli Anelli, da fanciulla che protegge attivamente gli altri a guaritrice passiva e moglie di Faramir, suggerendo come fondamentale il guardare al gerundio della parola “passione”: “per suggerire come quella sia la logica in base alla quale noi possiamo leggere fruttuosamente l’opera fantasy di Tolkien in un senso di sacrificio ed espiazione di stampo cattolico” (479). Roberts suggerisce che la chiave di lettura di questa passività passi attraverso la comprensione del concetto cristiano di cedere la propria volontà ad un disegno divino più grande e suggerisce che questa idea sia presente anche nel momento in cui Galadriel resiste alla tentazione dell’Anello del Potere, “supera la prova”, si rassegna a veder diminuire il proprio potere in Occidente e resta Galadriel (in contrasto con la malvagia regina che sarebbe diventata se avesse preso l’Anello). La passività dunque è una scelta attiva e nega la polemica sul fatto che i personaggi femminili di Tolkien siano solo marionette o simboli idealizzati; come Roberts specifica: “La passività in questo romanzo è una passione. È il cuore del problema; per quanto possa sembrare assiomatica, una delle più grandi battaglie del femminismo è stata contro la sensazione della passività come uno stato ‘naturale’ delle donne, mentre l’agire e l’intervenire erano riservati agli uomini” (481). La parte successiva del saggio di Roberts vira un po’ più verso una più ampia discussione riguardo alla razza, inclusa l’evocazione della dialettica “signore-servo” di Hegel, ma verso la fine ritorna al suo argomento principale, suggerendo agli studiosi un interessante metodo per ricontestualizzare l’opinione generale su Tolkien come creatore di personaggi femminili marginali ed idealizzati concentrandosi sul modo in cui passività e passione siano correlate nella drammatizzazione che ne fa Tolkien. Roberts evidenzia ed offre alcune interessanti analisi su un tema che – grazie anche a libri recenti quali Perilous and Fair: Women in the Works and Life of J.R.R. Tolkien60 (2015) – si aggiunge all’indagine in quest’area degli studi tolkeniani.

Nel suo saggio su “Art”61, Christopher Tuthill indaga innanzitutto l’importanza contestuale delle arti visive nella creazione di miti da parte di Tolkien. Tuttavia, dopo una breve ma convincente descrizione dei pensieri di Tolkien sulle arti visive, Tuthill dirige la propria attenzione sul modo differente in cui gli artisti moderni hanno visualizzato l’opera di Tolkien ed hanno rappresentato le scene del suo legendarium: John Howe, Jeff Murray (che ahinoi se n’è andato di recente) e Ted Nasmith. Ho sicuramente trovato quest’analisi interessante ma sono rimasto in qualche modo sorpreso dal non vedere alcuna menzione da parte di Tuthill dei disegni e dei dipinti di Tolkien stesso, molti dei quali sono stati pubblicati da Scull ed Hammond.

In “Music”62 Bradford Lee Eden dimostra in modo convincente l’importanza della musica per Tolkien e il ruolo decisivo che la musica gioca nella sua mitologia; infatti, come Eden giustamente osserva, è la musica il vero motore (“La Musica degli Ainur”) della creazione di Eä. Sebbene Tolkien stesso abbia scritto in diverse occasioni di avere una conoscenza musicale assai povera, Eden cita utilmente diverse lettere di Tolkien per dimostrare come, in realtà, Tolkien avesse una buona dose d’esperienza e di gusto per diverse forme di musica. Eden costruisce abilmente la propria rassegna e il proprio lavoro critico sul ruolo della musica in Tolkien iniziando con Splintered Light63 di Verlyn Flieger (2002) in cui Tolkien viene descritto come un “musicista di parole” e viene esplorata la natura duplice di linguaggio e musica. Eden qui si basa sulla ricerca di Flieger, citando diverse poesie, come “Tinfang Warble”, per mostrare come Tolkien evochi la musica nell’immaginario della sua poetica. Eden indaga inoltre in modo approfondito alcune recenti ricerche in quest’area, concentrandosi utilmente su due testi critici cruciali: Music in Middle-earth64 e Middle-earth Minstre65l, entrambi pubblicati nel 2010. Eden conclude il suo saggio esplorando in che modo la musica contemporanea abbia usato i temi tolkeniani ed afferma che “La ricchezza della musica subcreata ispirata dagli scritti di Tolkien è un’ulteriore area matura per ricerca ed esplorazione” (511).

Kristin Thompson si occupa dell’analisi dei principali adattamenti dello Hobbit e del Signore degli Anelli, dal progetto del film del 1957-59 di Morton-Grady Zimmerman ai più recenti film di Peter Jackson. Thompson esamina a fondo gli scritti di Tolkien che commentano la sceneggiatura del film Il Signore degli Anelli, di Zimmerman-Ackerman, i quali ci lasciano intuire il pensiero di Tolkien sul processo di adattamento delle sue opere. In modo assai interessante Thompson evidenzia alcuni dei meno conosciuti, ma ugualmente interessanti, adattamenti, incluso l’adattamento russo del 1985 dello Hobbit (un film per la tv di 71 minuti, Skazochnoye puteshestviya mistera Bilbo Begginsa Khobbita, o Il fantastico viaggio di Bilbo Baggins lo Hobbit) e lo Hobitit (Hobbits) finlandese del 1993, nove episodi che coprono entrambi i libri, in cui un vecchio Sam Gamgee racconta la storia ad un gruppo di bambini (524). Thompson conclude con un’approfondita analisi della genesi e del successo dei film di Peter Jackson, fino alla prima parte dello Hobbit. Sono rimasto sorpreso dal non trovare alcuna menzione dei principali adattamenti radiofonici dell’opera di Tolkien, in particolare la produzione di Brian Sibley per la BBC del 1981, che chiaramente ha ispirato Peter Jackson per l’adattamento dei suoi film.

In “Games and Gaming: Quantasy”66 Péter Kristóf Makai offre un’indagine assai intrigante dei giochi e dei videogiochi come elemento subcreativo e costruttore di mondi dei miti della Terra di Mezzo. Meticolosamente Makai esplora lo sviluppo cronologico del mondo ludico riguardante l’opera di Tolkien, iniziando coi primi giochi da tavolo, continuando col ruolo che Tolkien giocò nello sviluppo del gioco di ruolo Dungeons and Dragons, così come l’impatto dei computer e di internet nello sviluppo di giochi e piattaforme online su Tolkien, culminate nell’imponente gioco multi-player online Lord of the Rings Online67. Makai conclude quest’interessante indagine suggerendo che fu la modellazione operata da Tolkien sul suo mondo secondario a permettere la sua trasmissione e la sua ispirazione, prima nei giochi di ruolo e poi nel mondo dei computer. Il gioco di ruolo di per sé è stata un’opportunità subcreativa, ispirata a Tolkien, per chiunque di evocare “terre ricche di fantasia dove poter essere audaci, giocare d’intrigo e simulare battaglie” (542-543). Makai si confronta con le teorie similarmente espresse da Mark J.P. Wolf in Building Imaginary Worlds: The Theory and History of Subcreation68 (2012), nel quale egli indaga in che modo questo atto subcreativo sia diventato la parte più ampia e globale del creare mondi secondari attraverso media digitali e online. Makai giunge al nodo cruciale che la tecnologia odierna ha portato i partecipanti molto vicini a quella sensazione di immersione nel mondo secondario che Tolkien aveva originariamente spiegato in “Sulle fiabe” col termine di “Dramma Fiabesco”. Makai offre agli studiosi e agli eruditi un’assai utile bibliografia dei libri e degli articoli sul ruolo dei giochi nella costruzione dei mondi secondari, un’area di studio emergente che offre alcune interessanti opportunità per future ricerche.

Complessivamente, faccio i miei complimenti al curatore di questo volume, Stuart D. Lee, per aver centrato l’obiettivo della serie Wiley-Blackwell mettendo assieme una collezione dei migliori studiosi ed accademici tolkeniani al fine di fornire nuove prospettive su Tolkien che possano stabilire le basi, le sfide e i dibattiti in corso nell’opera accademica svolta finora su questo autore, nonché, in molti casi, motivare studiosi ed eruditi ad indagare ognuna di queste aree in modo più approfondito e verso nuove tematiche. Gli studiosi e gli eruditi sono sostenuti in questo da specifiche e molto utili bibliografie alla fine di ciascun saggio, compresa un’ulteriore sezione di indicazioni e una bibliografia generale alla fine del volume con le opere di Tolkien e dei suoi principali studiosi.

Vi sono davvero ben poche lacune in questo erudito contenitore, anche se sono rimasto sorpreso nel non vedere un saggio sugli adattamenti stranieri dell’opera tolkeniana e, data la sua importante influenza su Tolkien, uno specifico saggio sul Beowulf. Ancora, la compilazione di questo volume giunge troppo in ritardo per contenere la recente pubblicazione The Fall of Arthur69 che stabilisce quest’opera come una parte importante dell’opera creativa di Tolkien, con una connessione significativa al suo legendarium. Ma queste sono sottigliezze e il prezzo di questo volume sarà ripagato dalla conoscenza e dalla comprensione che lo studioso e l’erudito ne ricaveranno, nonché dalla motivazione che riceveranno da ciascun autore ad approfondire studio ed esplorazione. Consiglio vivamente questo volume, che considero come una delle più importanti opere di raccolta di studi su Tolkien fino ad oggi.

[traduzione autorizzata di Adriano Bernasconi dall'originale apparso per la prima volta online su Journal of Tolkien Research volume 2 issue 1, 2015]

1 Compendio a J.R.R. Tolkien (N.d.T.)

2 “Scritti accademici” (N.d.T.)

3 “Le donne scomparse: il supporto di Tolkien all’istruzione superiore femminile lungo tutta la vita” (N.d.T.)

4 Belle e pericolose: le donne nella vita e nelle opere di J.R.R. Tolkien (N.d.T.)

5 “Tolkien come redattore” (N.d.T.)

6 “Critica testuale dell’antico inglese” (N.d.T.)

7 Arda ricostruita (N.d.T.)

8 “Creazione di miti e subcreazione” (N.d.T.)

9 “La mitologia della Terra di Mezzo: una panoramica” (N.d.T.)

10 “Il Silmarillion: la teoria di Tolkien su miti, testi e cultura” (N.d.T.)

11 Storia della Terra di Mezzo (N.d.T.)

12Lo Hobbit: un punto di svolta” (N.d.T.)

13 “I Racconti incompiuti e la storia della Terra di Mezzo: una vita di immaginazione” (N.d.T.)

14 “’La strada perduta’ e ‘Le carte del Notion Club’: mito, storia e viaggi nel tempo” (N.d.T.)

15 “Opere ‘minori’” (N.d.T.)

16 “Poesia” (N.d.T.)

17 “Piedi di goblin” (N.d.T.)

18 “Sistemi di scrittura e linguaggi inventati” (N.d.T.)

19 La Compagnia dei Linguisti Elfici (N.d.T.)

20 “Le etimologie”, “Lhammas” e “L’albero delle lingue” (N.d.T.)

21 “Contesto” (N.d.T.)

22 “La formazione dell’inglese” (N.d.T.)

23 Vocabolario di medio inglese (N.d.T.)

24 “La teoria A/B” (N.d.T.)

25 “Chaucer filologo: Il racconto del fattore” (N.d.T.)

26 “Alcuni contributi alla lessicografia del medio inglese” (N.d.T.)

27 “Piedi di goblin” (N.d.T.)

28 “Il finnico: la terra e la lingua degli eroi” (N.d.T.)

29 Grammatica finnica (N.d.T.)

30 La storia di Kullervo (N.d.T.)

31 Le chiavi della Terra di Mezzo (N.d.T.)

32 “Il celtico: ‘cose celtiche’ e ‘cultura celtica’ – identità, linguaggio e mitologia” (N.d.T.)

33 “La tradizione letteraria inglese: da Shakespeare al gotico” (N.d.T.)

34 Reliquie dell’antica poesia inglese (N.d.T.)

35 Una ricostruzione dell’ingegno perduto dell’antichità (N.d.T.)

36 “Le prime fiction fantasy: Morris, Dunsany e Lindsay” (N.d.T.)

37 La Casata dei Wolfings (N.d.T.)

38 Un viaggio verso Arturo (N.d.T.)

39 I recinti della felicità (N.d.T.)

40 Nel testo originale “bandersnatch”, personaggio che compare in Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Carroll, all’interno della poesia nonsense Jabberwocky. Il nome della creatura ha diverse traduzioni in italiano: ho scelto una delle più famose, cioè quella di Masolimo D’Amico del 1978. (N.d.T.)

41 Fantasy adulti della Ballantine Books (N.d.T.)

42 Letteralmente “spada e stregoneria” (N.d.T.)

43 “La modernità: Tolkien e i suoi contemporanei” (N.d.T.)

44 I popoli della Terra di Mezzo (N.d.T.)

45 “La fiction di fantasy successiva: il lascito di Tolkien” (N.d.T.)

46 Il servizio del gufo (N.d.T.)

47 Letteralmente L’ostica guida a Fantasilandia. Il titolo è un gioco di parole che fa il verso alla serie delle Rough Guides, famose guide turistiche edite dalla Penguin nel Regno Unito e tradotte in svariate lingue. (N.d.T.)

48 “Il fantasy nel ventunesimo secolo” (N.d.T.)

49 “Approcci critici” (N.d.T.)

50 “La risposta della critica alla fiction di Tolkien” (N.d.T.)

51 “Oh, quegli orribili orchi!” (N.d.T.)

52 “Stile ed echi intertestuali” (N.d.T.)

53 Il potere della prosa di Tolkien (N.d.T.)

54 “Il viaggio dell’eroe” (N.d.T.)

55 “La struttura interlacciata del Signore degli Anelli” (N.d.T.)

56 “Natura” (N.d.T.)

57 “Religione: un cattolicesimo implicito” (N.d.T.)

58 Il ritorno dell’Anello (N.d.T.)

59 “Donne” (N.d.T.)

60 Belle e pericolose: le donne nella vita e nelle opere di J.R.R. Tolkien (N.d.T.)

61 “Arte” (N.d.T.)

62 “Musica” (N.d.T.)

63 Luce scheggiata (N.d.T.)

64 La musica nella Terra di Mezzo (N.d.T.)

65 Il menestrello della Terra di Mezzo (N.d.T.)

66 “Giochi e videogiochi: quantasy” (N.d.T.)

67 Il Signore degli Anelli online (N.d.T.)

68 Costruire mondi immaginari: teoria e storia della subcreazione (N.d.T.)

69 La caduta di Artù (N.d.T.)