J.R.R. Tolkien, The Fall of Gondolin,

HarperCollins, London 2018

Ed. it. La Caduta di Gondolin, Bompiani, Milano 2018



di Gianluca Meluzzi



Con The Fall of Gondolin si conclude l’opera filologica di Christopher Tolkien, iniziata nel 1977 con The Silmarillion. È lui stesso ad annunciarlo, ed era banalmente prevedibile, data la veneranda età. Ciò non di meno ne prendiamo atto con tristezza; perché non possiamo dimenticare con quale costanza, dedizione e competenza egli abbia raccontata e resa pubblica la gigantesca opera inedita di suo padre, né con quale emozione noi ci siamo accostati, per anni ed anni, ad ogni suo nuovo titolo. E non possiamo non essergliene profondamente riconoscenti.


La tristezza per la fine si accoppia, ahimé, ad una certa delusione per i contenuti.

Fin dalle origini J.R.R. Tolkien aveva costruito il proprio “legendarium” in modo che tutto lo sviluppo millenario e complesso della vicenda tendesse ad un gruppo di quattro grandi racconti epici. Questi erano, o dovevano essere, Beren e Luthien, i Figli di Húrin, la Caduta di Gondolin e le Avventure di Eärendil: quattro storie possenti, dove il sangue e le vicende degli Uomini si mescolavano con quelli degli Elfi prima che questi ultimi lasciassero per sempre la Terra di Mezzo (fama e successo gli avrebbero poi arriso con l’aggiunta e l’elaborazione di una quinta storia, all’epoca neppure ancora pensata: The Lord of the Rings).


Nessuna di queste quattro storie raggiunse mai la compiutezza, malgrado gli immensi sforzi dell’autore, che per decenni scrisse, riscrisse, annotò, corresse, molte versioni e molti abbozzi, sia in prosa sia in versi.


È noto come Christopher dapprima curò e pubblicò quasi tutti gli scritti inediti di suo padre nella History of Middle Earth. Conclusa infine quest’opera lunga e poderosa, iniziò a dedicare un volume a ciascuno dei grandi racconti: The Children of Húrin nel 2007, Beren and Luthien l’anno scorso, ed ora The Fall of Gondolin.


In quanto alle avventure di Eärendil, il materiale letterario ereditato era e resta quantitativamente insufficiente a giustificare un libro autonomo.


In The Children of Húrin, egli intraprese la ricostruzione di un testo “definitivo” della storia, mettendo insieme parti prese dalle varie bozze. Il risultato fu un racconto postumo unitario e di grande effetto poetico.


In modo simile molti anni prima, con un grandissimo lavoro di studio e di montaggio, aveva preso il meglio di quanto c’era tra gli scritti autografi del Legendarium per dare compiutezza al desiderio del padre che il Silmarillion fosse pubblicato.


In ambo i casi il suo obiettivo era stato quello di rendere noto ed imperituro un testo che fosse completo, organico, godibile e definitivamente bello per il lettore.


Con Beren e The Fall il suo approccio è diverso. Essi vengono affrontati e trattati con un tipo di esposizione ibrida, che si pone a metà strada tra il filologico illustrativo della History ed il narrativo filologicamente ricostruito del The Children. Il risultato, inevitabilmente, resta deludente sotto entrambi gli aspetti.


L’aspetto filologico dei testi originali che vengono presentati nel The Fall, infatti, già lo aveva esaustivamente sviluppato in precedenza. Pertanto, in forma così ridotta e sparsa, stona e non soddisfa assieme; meglio sarebbe stato raggrupparlo in appendice, come già nel The Children.


In quanto a quello narrativo, è slegato. I racconti originali vengono semplicemente riportati uno di seguito all’altro (lunghi e brevi, compiuti ed abbozzati) in ordine di stesura, senza montarli o collegarli tra loro, ma piuttosto separati ed intercalati da sue brevi analisi e considerazioni. Erano peraltro tutti già stati pubblicati (sebbene, salvo uno solo, mai in Italiano), per cui nessuna novità emerge. L’occasione non viene colta neppure per trascrivere l’unico rimasto ancora inedito, per quanto breve ed incompiuto esso sia: il Lay of the Fall of Gondolin. Ed anche questo è motivo di delusione.


Inoltre non manca una certa confusione espositiva, come il brano sugli Elfi a Valinor che non si ricollega a Gondolin, qualche collocazione cronologicamente curiosa, qualche brano davvero troppo breve ed incompleto, o l’interruzione filologica del testo narrativo del tutto occasionale e, quindi, sorprendente. Tutti fattori che disturbano la leggibilità, senza costituire un vero arricchimento per il lettore.


Il senso dell’opera, dunque, è meramente quello di fornire un compendio dei documenti, già noti, sull’argomento, e di illustrare lo sviluppo del racconto nel corso della vita dell’autore.

Questo, sebbene il materiale a disposizione sia d’una poeticità e d’una compiutezza tali, che all’autorevolezza ed al calibro di Christopher Tolkien sarebbe stato lecito osare di più.


Insomma l’impressione è che questa volta, a differenza che in passato, egli abbia scelto di scrivere in modo più leggero, meno impegnativo per sé, allo scopo di onorare non tanto suo padre, come sempre era stato fino al The Children, quanto sé stesso. Cioè, più affinché il lavoro sugli archivi, che aveva inizato negli anni ’70, potesse dirsi completo sotto ogni punto di vista, che non per rendere immortale e bellissima la Caduta di Gondolin, al pari di quanto aveva così magistralmente fatto con il Silmarillion e con i Figli di Húrin.

Un peccato di senilità dunque, umano e comprensibile, che volentieri gli perdoniamo.


Anche l’edizione Bompiani che, essendo i testi massimamente inediti in Italia, per il lettore italiano può rappresentare il vero punto di forza di questo libro, non è particolarmente brillante. Questo soprattutto perché il traduttore si rivela non adeguatamente addentro all’argomento ed omette di approfondire sia quando non sa, sia i passaggi dubbi, in tal modo travisando spesso il senso originale inteso dall’autore.


Così, ad esempio, la rupe di Christhorn, alta “seven chains” (ovvero circa 140 m) diviene alta, assurdamente, “sette leghe” (45 km!); le alte catene montuose della Terra di Mezzo, che sistematicamente Tolkien chiama “hills”, divengono semplici “colline”; il past tense non sempre viene tradotto con la forma italiana più appropriata al senso del brano; “from Taras in the West”, ovvero “dal Taras che si trova ad Ovest” diviene ”da Taras fino all’Occidente”; Turgon, “a leader of the Noldor who dared the terror of the Helcaraksë”, ovvero “uno dei capi…”, diviene “[il] capo dei Noldor che sfidò il terrore dell’Helcaraksë”; ed i “Deep Elves”, ovvero gli Elfi Profondi per le loro conoscenze (i Noldor, o Gnomes), divengono gli “Elfi Sotterranei”!

Solo per citare qualcuno dei casi che colpisce anche ad una prima lettura non particolarmente attenta.


Si suggerisce, infine, di prendere visione della recensione fatta dal prof. C. A. Testi per Beren and Luthien, su Endore n. 20, che nella sostanza resta pienamente applicabile anche a The Fall of Gondolin.