Da Morgoth a Gollum (passando per Frodo)



di Vincenzo Gatti



È innegabile che anche il male è questione di sfumature, persino in Tolkien, persino cioè in un autore che, salvo pochissime eccezioni, tratta con pochissima simpatia perversi crudeli e corrotti e di sicuro non segue la moda di subirne la bieca seduzione.

Il male però non è assoluto, in primo luogo perché è brutta copia o sovvertimento del bene, e comunque è posteriore al bene. Con ciò non si intende scrivere che sia relativo, anzi. È semplicemente limitato o graduato, a tal punto da sconfinare, raramente e con estrema difficoltà, nel bene stesso. A riprova di questo prendiamo in considerazione orchetti e nani. Gli orchetti sono la brutta copia, o meglio, la corruzione (fisica, estetica, morale, culturale) degli elfi, operata da Morgoth, che non può creare perché il Creatore è Uno. Ma i nani, non per nulla scherniti per la loro deformità, e proprio dagli elfi, non sono forse frutto di un atto di superbia o, se non altro, di avventatezza, di un Vala fedele al bene e con poteri simili a Morgoth come Aulë? La differenza, anche se sostanziale, è questa: il dio fabbro è disposto a distruggere l’opera delle sue mani, attende che Iluvatar la faccia apparire sulla Terra, mentre Morgoth vuol fare di testa sua.

Chi è però Morgoth in fondo? Nella religione cristiana Satana (prima Lucifero) sembra godere di una situazione di isolamento: nel male nessuno è come lui, e forse neanche tra gli angeli nessuno è potente come lui. Persino ne Il paradiso perduto di Milton è sconfitto in particolare dal Verbo (cioè da Dio stesso, Dio Figlio). Ciononostante tenta Dio Figlio, quando Egli si è finalmente incarnato. Nella mitologia di Tolkien Melkor è fratello di Manwë e per potere lo eguaglia. Man mano si corrompe, ma resta incredibilmente potente, pur avendo fratelli che possono tenergli testa. La somiglianza, seppur velata, ma essenziale, con gli altri Vala è evidente in un passo: Melkor va a ingannare Fëanor, dicendo che i Silmaril fanno gola ai Valar i quali hanno potere di toglierglieli. L’elfo intelligente e industrioso capisce che il suo interlocutore proprio in quanto Vala può rubargli i Silmaril: il che puntualmente avviene.

A Melkor/Morgoth si può applicare, rovesciandola, una sententia critica di Luigi Russo sull’Innominato manzoniano: “Solo un grande pervertito può essere un grande convertito”. Con lui avviene il contrario: era uguale a Manwë, ma abbraccia con forza smisurata la via del male, che è anche fare con la sua testa. La presunzione intellettuale è un peccato sommo, ed è fonte di orrori che nessuna bestialità può eguagliare: Glaurung e Shelob si infilzano per conto loro sulla spada degli eroi, sebbene non siano privi di malizia, Morgoth invece preferisce usare le sottili armi dell’inganno e del terrore, di per sé soggettive, riuscendo di fatto a non perire mai.

Il male negli scritti più importanti di Tolkien è graduato: gli elfi perdono la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime (anche) per il tradimento degli uomini, ma è pur vero che un elfo, sia pur vedendo il corpo orrendamente smembrato del fratello, dà inizio a una carica solo apparentemente inarrestabile, che miseramente si infrange contro i bastioni della fortezza di Morgoth. Fingon, allora re supremo degli elfi di qua dal mare, potrebbe fermare il resto dell’esercito, ma invece si lascia catturare da una foga belligera molto simile a quella di Orlando (che preferisce lasciare sterminare le sue truppe piuttosto che suonare l’Olifante) o di Beorhtnoth (che rinuncia alla posizione di vantaggio che aveva contro i danesi). E dire che Sallustio aveva già segnalato da secoli che tra i valorosi Romani era più spesso punito chi scendeva in battaglia prima del segnale rispetto a chi si mostrava codardo.

Un’altra pecca degli elfi è la sostanziale indifferenza per gli uomini: è vero che Finrod li istruisce e li va spesso a cercare, è vero che i componenti delle più nobili casate umane sono trattati quasi da pari a pari dai sovrani elfici, ma tantissimi uomini, tantissime creature di Iluvatar, cedono alla seduzione di Morgoth, il primo a occuparsi e preoccuparsi (di rado) davvero di loro. Odiarlo purtroppo non è così automatico. Morgoth, i Valar, gli elfi, hanno un minimo comun denominatore: amano (o bramano) la Terra di Mezzo. Morgoth se ne proclama re, e Shippey suggerisce che la sua pretesa abbia un valido fondamento, i Valar la salvaguardano da lontano, forse troppo lontano (si pensi al capitolo L’occultamento di Valinor) sebbene le stelle testimonino sempre l’amore di Elbereth per gli elfi e Ulmo faccia scorrere le acque e con esse il suo potere anche negli anditi più riposti del dominio del male (come quell’acqua sorgiva che sgorga inconsapevole nella depravazione di Mordor, regno del vassallo più capace di Morgoth, il perverso Sauron). Gli elfi salvaguardano la bellezza e l’incanto della Terra di Mezzo, ma quasi come frutto tardivo della loro ribellione, del sangue che essi, prima di Caino, versarono persino in Paradiso. Non c’è uomo né orchetto che abbia ucciso a Valinor: il primato, molto dubbio, certo triste, spetta agli elfi.

Morgoth è il sedicente (o vero?) re di quella Terra di Mezzo che Tolkien stesso definisce Morgoth’s Ring. Egli forse perde il suo potere disseminandolo in tutto il male che contraddistingue la Terra di Mezzo, così come Sauron, il suo successore (nonché adoratore), cede parte del suo potere all’Unico Anello per soggiogare gli anelli elfici, gli anelli dati ai nani e agli uomini. Il risultato è noto: gli elfi scelgono la via del nascondimento per non essere corrotti o peggio ancora dominati da Sauron e quindi fanno come i Valar, ma hanno in più il rimorso del loro peccato originale di ribellione (e di strage), i nani lentamente, gli uomini più velocemente, cedono al male.

Sauron è fortunatamente sconfitto da un’ultima potente alleanza, Isildur, numenoreano (cioè atlantideo, superstite della Terra del dono), uomo privilegiato, discendente delle grandi casate degli amici degli elfi, non vuole distruggere l’Anello, il suo guidrigildo. Per poco non lo chiama tesoro, come di lì a poco qualcun altro avrebbe fatto. Isildur è ucciso, e l’Anello (viene sempre il sospetto che sia dotato di volontà propria) giunge all’essere più insospettabile: uno hobbit. Questi vive lungo il fiume, pesca col fratello, ruba l’anello al fratello (anche Manwë e Melkor erano come fratelli), soprattutto uccide il fratello per rubarlo. Ciò gli costa un isolamento sempre crescente, delirio, follia, solitudine, paura, squallida malvagità, ciò acuisce la sua cattiva fama, lo porta a cibarsi di cadaveri se non peggio (bimbi di orchetto). Ciò infine lo porta a temere il sole, lo trasforma in una creatura perversa e notturna. Eppure, Gollum, il terzultimo padrone dell’anello, sembra più, absit iniuria verbis, un tossicodipendente che un malvagio. È quanto di più lontano ci sia da Sauron. Quasi quasi vuole il quieto vivere tanto quanto due hobbit buoni e simpatici quali Bilbo e Frodo. Non è civilizzato come loro, mangia cibi crudi, gira seminudo, è deformato anche esteriormente dall’Anello, ma ama l’Anello in sé, è il suo Tesoro, è il suo apocalittico regalo di compleanno. Bilbo glielo sottrae abbastanza lealmente con l’indovinello “Cos’ho in tasca?” e, grazie a Gandalf, l’Anello passa all’avveduto Frodo.

Frodo ha un rapporto ambivalente con Gollum, eppure, a differenza di quanto avrebbero fatto gli stessi elfi di ere passate, ha pietà. Gollum, il mostriciattolo, è visto da Frodo come persona. Deve essere nato il Redentore: i cattivi non sono più creature senza volto da sterminare o da temere, nella migliore delle ipotesi da maledire, ma diventano creature da redimere, con le quali negoziare, con le quali instaurare un dialogo, senza sinistre e tetre profezie, senza clangori di guerra, senza parole di sfida. Tutti sono manzonianamente “Figli di un solo Riscatto”. Frodo ottiene da Gollum il giuramento che l’Anello non sarà mai di Sauron, e quel povero, infelice essere, giura sull’Anello, cioè sulla sua stessa malattia. La seduzione del potere, del piacere, dell’autoaffermazione, il crogiolarsi nel rancore, il sentirsi superiori, forse è solo questo: malattia.

Frodo giunge alla fine della sua Odissea, e deve compiere il passo più difficile: distruggere l’Anello, che intanto, vicino al suo vero padrone (sebbene sia Frodo il padrone agli occhi di Gollum) diventa sempre più pesante. Viene spontaneo un paragone con Dante: il punto dove è più forte la gravità, nell’Universo, è quello dove c’è il signore del male, gravità fisica e teologico-morale coincidono. Frodo però si arroga l’Anello, esclama che l’Anello è suo. Subito dopo i Nazgul si precipitano a servirlo, o forse ad ingannarlo. È il momento determinante della storia dell’umanità: il male può risorgere più subdolo e più sinistro. Ne La realtà in trasparenza si legge che Frodo dovrebbe essere fucilato per tradimento. Ciò equivale a trascurare l’enorme sforzo morale che egli deve compiere, la tenacia disperata con la quale ha resistito alla tentazione che lo ha avvelenato continuamente, subdolamente, atroce e sistematica, come morbo e come dipendenza. Frodo, però, a differenza di personaggi pur positivi come Vala ed elfi, incarna soprattutto la pietas. Gli è perdonato perché ha molto amato, perché ha perdonato per primo. Gollum lo morde, gli stacca il dito con l’Anello, ma poi, affinché si avveri l’ultima profezia e con essa il giuramento di Gollum stesso, precipita nella lava del Monte Fato. Dell’Anello e di Sauron, perciò, non resta più traccia. Gollum muore con il suo Tesoro, in una strana riedizione del binomio amore-morte, muore con ciò che aveva bramato come Morgoth la Terra. A Frodo non resta altro da fare che andarsene: anche lui, come gli elfi e Gandalf, ha saputo rinunciare all’Anello, nel momento in cui ha trovato del buono in una piccola, viscida, disgustosa creatura: che era come lui, quando il mondo era giovane.