Il lai di Aotrou e Itroun per la prima volta in italiano1



di Emilio Patavini



Ogni volta che viene annunciata la pubblicazione di un inedito tolkieniano, gli appassionati non possono fare altro che correre in libreria ad accaparrarsene una copia. È questo il caso de Il lai di Aotrou e Itroun, uscito nel nostro paese il 25 ottobre 2023 per Bompiani, che compare per la prima volta in italiano nella splendida traduzione di Luca Manini a sette anni dalla pubblicazione dell’edizione inglese curata dalla studiosa tolkieniana Verlyn Flieger, professoressa emerita dell’Università del Maryland e autrice del saggio Schegge di luce. Logos e linguaggio nel mondo di Tolkien (la cui nuova edizione italiana uscirà per Marietti 1820 il 29 febbraio 2024). Il poema che dà il titolo al volume, The Lay of Aotrou and Itroun, è accompagnato da altre due Corrigan poems (“poesie della fata maligna”) più brevi che analizzeremo in seguito.


In origine il Lai uscì in lingua inglese nel dicembre 1945 sulla rivista The Welsh Review (Vol. IV, No. 4) diretta da Gwyn Jones, ma la sua stesura risale al 1930 e, come nota Christopher Tolkien nella sua nota introduttiva, «Aotrou e Itroun interruppe la composizione del canto X del Lai del Leithian» (p. 7), pubblicato poi nel terzo volume della Storia della Terra di Mezzo, I Lai del Beleriand (edito in Italia nel 2022 nella traduzione di Luca Manini). Proprio come il coevo Lai del Leithian, Aotrou e Itroun è scritto in distici ottosillabi e l’allitterazione – scrive sempre Christopher – «vi ha funzione decorativa, non strutturale, sebbene qui e là assuma un carattere molto marcato» (p. 8). Per lai si intende un breve componimento poetico in versi ottosillabi e in rima baciata diffusosi in Francia nei secoli XII-XIII e che molto spesso trattava la matière de Bretagne, come i celebri lai di Maria di Francia, poetessa attiva nel XII secolo. L’ambientazione di questo poemetto è per l’appunto bretone: esso non riprende solo la forma compositiva del lai bretone o la terminologia di Aotrou “signore” e Itroun “signora”, ma attinge anche alla tradizione folklorica di quelle terre, mettendo in scena una riscrittura creativa del mito celtico sul palcoscenico del faërian drama di cui Tolkien parlava nel suo saggio Sulle fiabe (1939).


Entrando più nello specifico, secondo Verlyn Flieger, Il lai di Aotrou e Itroun e le due poesie più brevi che lo accompagnano, sono stati partoriti «dalla parte più oscura della fantasia di Tolkien» (p. 11). Nei 506 versi che compongono il poemetto viene narrata la storia di una coppia di nobili bretoni che non può avere figli. Il signore (Aotrou) si rivolge dunque a una strega che gli offre un filtro magico con cui la signora (Itroun) può partorire, dando alla luce due gemelli, un maschio e una femmina. Ma ecco che la strega, rivelatasi una corrigan (figura su cui torneremo più avanti), reclama l’amore del signore come pagamento, ma poiché Aotrou rifiuta dimostrandosi fedele ai voti matrimoniali, ella lo condanna a morire entro tre giorni; stessa sorte tocca a Itroun, che soccombe al dolore quando viene a sapere della morte del marito.


La storia non è originale, ma è un adattamento della ballata Aotrou Nann hag ar Gorrigan (Le Seigneur Nann et la Fée) riportata nella raccolta di canti popolari bretoni Barzaz-Breiz: Chants Populaire de la Bretagne (1839) a cura di Théodore-Claude-Henri Hersart de La Villemarqué. I due volumi dell’opera di Villemarqué furono acquistati da Tolkien nel 1922, e oggi sono custoditi presso la Weston Library dell’Università di Oxford. In questa ballata bretone, un uomo di nome Nann lascia a casa la moglie che il giorno prima aveva partorito due gemelli per andare a caccia, ma giunto ai confini della foresta scorge una cerva bianca, e la insegue finché essa non si ferma ad abbeverarsi in un ruscello. Nei pressi del corso d’acqua si trova la grotta di una korrigan, che è seduta accanto alla fontana intenta a pettinarsi i lunghi capelli biondi. Nann viene minacciato: se egli non sposerà la korrigan morirà entro tre giorni, ma l’uomo risponde di non poterla sposare e dopo tre giorni muore. La moglie, trovando la tomba del marito nel sagrato della chiesa, muore di crepacuore. Viene poi sotterrata nella stessa tomba del marito, da cui il mattino dopo spunta una quercia che ospita sui suoi rami due colombe bianche.


Tornando al volume, la seconda parte è dedicata al «dittico» (p. 63) delle Corrigan poems, ovvero le poesie della fata maligna. Questi due componimenti precedono Il lai di Aotrou e Itroun e possiamo dire che ne costituiscono il terreno preparatorio: si tratta di due poesie differenti, ma che hanno come comune denominatore la presenza della corrigan, una fata maligna e mutaforma della mitologia bretone associata ai boschi, ai corsi d’acqua e alle sorgenti. Il nome bretone korrigan è stato interpretato da Villemarqué come un composto di korr “nano” e gwen o gan “genio, spirito”2; stando invece a un dizionario del dialetto bretone di Vannes, korrigan è la forma femminile di korrik, diminutivo di korr “nano”, termine che indica anche una fata dotata di poteri magici. Nella prima di queste ballate, La fata maligna I, troviamo il tema tipico della sostituzione di un bambino umano con un essere fatato detto changeling (polpegan in bretone). L’ispirazione per questa poesia è il lai Ar Bugel Laec’hiet (L’enfant supposé), scritto nel dialetto della Cornovaglia francese e presente nei Barzaz-Breiz di Villemarqué. La seconda, La fata maligna II, è incentrata sul tentativo di seduzione di un uomo mortale da parte di una fata maligna associata a una fonte, e – come spiega il sottotitolo assegnatole da Tolkien – si basa sul lai Aotrou Nann Hag ar Gorrigan, scritto nel dialetto del Léon e anch’esso presente nella raccolta di Villemarqué. Come scrive Villemarqué nella sua raccolta Barzaz-Breiz: «È infatti presso le fontane che si incontrano più frequentemente le korrigan, soprattutto presso le fontane nei pressi dei dolmen; esse sono rimaste le padrone dei luoghi solitari da cui la Beata Vergine, che appare come loro più grande nemica, non le ha scacciate. Le tradizioni bretone attribuiscono loro una grande passione per la musica e delle belle voci, ma a differenza delle tradizioni germaniche non le fanno danzare. I canti popolari di tutti i popoli le rappresentano spesso intente a pettinarsi i loro capelli biondi, di cui sembrano avere particolare cura»3. Nella terza parte del volume troviamo un frammento di 29 versi che si inserisce a metà tra le due ballate dedicate alla fata maligna e il poemetto di Aotrou e Itroun; anche la metrica si differenzia dagli altri componimenti, poiché scritto in tetrametri giambici allitterativi. In questa sezione sono riportati anche gli abbozzi manoscritti e dattiloscritti, grazie ai quali è possibile ricostruire l’evoluzione del poemetto fino alla sua versione finale pubblicata sul Welsh Review. Infine, la quarta parte presenta un’interessante comparazione di alcuni brani nell’originale bretone, nella parafrasi francese di Villemarqué, nelle traduzioni in inglese di Thomas Keightley e Tom Taylor e nella versione tolkieniana de Il lai di Aotrou e Itroun.


Il lai di Aotrou e Itroun mostra diversi punti di contatto con altre opere tolkieniane. Nel 1936 Tolkien pubblicò privatamente insieme al collega E.V. Gordon uno dei testi più ambiti dai collezionisti tolkieniani: Songs for the Philologists. In questa raccolta di canzoni scritte in antico inglese, norreno, gotico e latino, compaiono due poesie molto interessanti, pubblicate e tradotte dall’anglosassone in appendice al fondamentale saggio The Road to Middle-earth di Tom Shippey. La prima è Ides Ælfscýne4 (“La dama d’elfica bellezza”), in cui una fanciulla elfica attira un uomo nel reame di Faërie (un reame in cui, per inciso, troviamo un cane bianco che – come vedremo in seguito – è un elemento ricorrente nella tradizione celtica per segnalare il contatto l’Altro Mondo); ma quando, cinquant’anni dopo, l’uomo torna nel nostro mondo, scopre che tutti i suoi amici sono morti. La seconda è Ofer Wídne Gársecg (“Oltre il vasto oceano”), in cui un giovane cade in mare durante una tempesta e nelle profondità dell’oceano incontra una sirena che lo costringe a sposarla. In entrambe le poesie, troviamo uomini che, a differenza di Aotrou, subiscono le malie delle creature fatate accettando di entrare nella dimensione oltremondana da cui esse provengono. Come notato da Tom Shippey, Il lai di Aotrou e Itroun è uno dei quegli scritti tolkieniani in cui le visioni cristiane e pagane sono messe a confronto ed entrano in conflitto in maniera più evidente: il tocco originale di Tolkien è «l’austera moralità della poesia»5. Un’altra opera che rientra in questo genere di scritti è Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, riscrittura in versi del poema anglosassone La battaglia di Maldon pubblicata nel 1953, ma composta già a partire dagli anni ‘30. L’intera vicenda ruota attorno all’atto di orgoglio dell’ealdorman Beorhtnoth che per guadagnarsi gloria personale porta alla sconfitta dell’esercito anglosassone nella battaglia di Maldon. Nel poema anglosassone viene utilizzato un termine specifico per riferirsi al comportamento di Beorhtnoth, ofermod, tradotto da Tolkien con «soverchiante orgoglio» – un concetto per certi versi equiparabile alla hybris greca. Al termine ofermod Tolkien dedicò un saggio in cui criticava la “teoria del coraggio” sottesa alla tradizione eroica germanica che entrava in conflitto con i valori cristiani da lui professati. Similmente a Beorhtnoth, che verrà punito con la morte propria e dell’esercito di cui è a capo per il suo ofermod, in un abbozzo manoscritto Aotrou viene giudicato per la «scelta mostruosa e folle» (mad and monstrous rede) da lui compiuta, mentre nella versione pubblicata del poemetto questo sintagma sarà sostituito con «freddo avviso» (counsel cold).


Passando a un altro argomento, ne Il lai di Aotrou e Itroun, il signore si inoltre nella foresta di Broceliande (la leggendaria foresta bretone della leggenda arturiana che Tolkien usò per il nome Broseliand, poi mutato in Beleriand) per andare a caccia, scorgendovi una «bianca cerva» (white doe) che lo conduce fino alla fonte della fata, ai margini del bosco. La stessa cerva bianca compare anche ne La fata maligna II: il colore bianco indica che essa è emissaria dell’Altro Mondo, proprio come il cervo bianco (white deer) che compare nei pressi di un ruscello incantato nel capitolo VIII (Mosche e ragni) de Lo Hobbit, in cui Bilbo e i Nani si trovano a Bosco Atro. Come scrive Douglas A. Anderson ne Lo Hobbit annotato: «Nella tradizione celtica, incontri con animali bianchi (cervi bianchi in particolare) prefigurano di solito un incontro con esseri provenienti dall’Altro Mondo (Faërie)»6. L’episodio rimanda naturalmente al “Primo Ramo” del Mabinogion gallese, con protagonista Pwyll, principe di Dyvet. Il racconto si apre con una battuta di caccia a Glynn Cuch, dove possiamo leggere:


Il suo corno [di Pwyll] suonò l’adunata per la caccia; egli si slanciò dietro ai cani e presto perse i compagni. Prestava orecchio ai latrati dei propri cani, e così udì il diverso abbaiare di un’altra muta che avanzava incontro alla sua. In quel momento, ai suoi occhi si offriva la vista di una radura nel bosco, priva di ogni asperità. I cani comparvero sul limitare della radura ed egli scorse un cervo in fuga davanti all’altra muta. Giunta nel centro della radura, la muta che inseguiva il cervo lo raggiunse e lo abbatté.7


L’altra muta, composta da cani da caccia «di un bianco splendente e luminoso»8, appartiene ad Arawn, re di Annwn, l’Oltretomba gallese. Ricordiamo tra l’altro che Tolkien insegnò gallese medievale a Leeds e, come è stato riportato da Carl Phelpstead in Tolkien and Wales: Language, Literature and Identity (2011), operò una traduzione, rimasta purtroppo incompiuta, proprio dell’episodio di Pwyll, il primo dei Quattro Rami del Mabinogion (Bodleian A.18/1.135-153).


Venendo poi all’opus magnum tolkieniano, la figura della corrigan, come nota Verlyn Flieger, «preannuncia la più grande e la più nota delle misteriose, magiche dame della foresta, una dama la quale è similmente legata a una fonte e a una fiala: la bella e terribile Dama del Bosco d’Oro, la Regina degli Elfi creata da Tolkien, la Galadriel del Signore degli Anelli» (p. 12). Ne Il lai di Aotrou e Itroun, infatti, troviamo citati una «fiala» (phial) e una «fonte» (fountain) legate alla fata che fanno pensare al dono di Galadriel offerto a Frodo (una fiala contenente la luce della stella di Eärendil) e la vasca d’argento nota come Specchio di Galadriel, riempita con l’acqua di un ruscello di Lothlórien. Come è stato osservato da più studiosi9, «Galadriel, tuttavia, non è l’unico personaggio femminile cui Tolkien conferisce un potere basato sull’acqua contenuta in un catino o che scorre da una fontana o da un ruscello. Baccadoro, la figlia della Donna del Fiume, è anch’ella un’incantatrice legata all’acqua»10.


Infine, una piccola nota a margine sulla versione in italiano. Va detto che la traduzione a cura di Luca Manini (già traduttore di altri testi tolkieniani come La caduta di GondolinLa Storia di KullervoBeowulfBeren e Lúthien , Sir Gawain e il Cavaliere VerdeI Lai del Beleriand) si pone nel pieno rispetto dell’originale: è arcaica senza essere antiquata o di maniera, ma soprattutto restituisce il ritmo e la musicalità del verso tolkieniano attraverso scelte stilistiche come l’inversione sintattica. Il lessico anticheggiante, composto perlopiù da toscanismi (proda per “riva”, solatio per “soleggiato”, bigio per “grigio”) e voci poetiche (mercede, merto, ratto, desire, speme, prece) è fedele allo stile di Tolkien, che impiega qui molti arcaismi come per esempio tidings “notizie”, I trow “io credo”, yestreve “ieri sera”.






1 J.R.R. Tolkien, Il lai di Aotrou e Itroun, Bompiani 2023, traduzione di Luca Manini, €20, pp. 208

Nota: si ringrazia l’Ufficio Stampa Bompiani per aver gentilmente inviato una copia del libro al recensore.

2Cfr. T. Hersart de la Villemarqué, Barzaz-Breiz: Chants Populaires de la Bretagne, Didier et compagnie, Paris 1883, p. LI

3Ivi, p. LII

4L’aggettivo anglosassone ælfscyne merita una discussione a sé (cfr. Lettera 236 dell’epistolario tolkieniano). Si tratta di un composto di ælf “elfo” e scíne “brillante, bello” (cfr. tedesco schön), che compare nei poemi in antico inglese Genesi A e Giuditta assumendo il discusso significato di “bella come un’elfa” in riferimento per esempio alla figura biblica di Giuditta (definita ides ælfscinu, v. 14).

5T. A. Shippey, J.R.R. Tolkien: Author of the Century, Houghton Mifflin Company, Boston-New York 2000, p. 293

6J. R. R. Tolkien, D. A. Anderson (ed.), The Annotated Hobbit. Revised and expanded edition, Houghton Mifflin Company, Boston-New York 2002, p. 200

7G. Agrati – M. L. Magini (a cura di), I racconti gallesi del Mabinogion, Mondadori, Milano 1982, p. 7

8Ibidem

9Cfr. D. Simon, The Enigma of Goldberry: Tolkien’s Narrative Braiding of Genre- and Symbol-Related Vocabularies in the Withywindle River-Daughter in Journal of Tolkien Research Vol. 15 Iss. 2 (2022)

10M. Burns, Perilous Realms: Celtic and Norse in Tolkien’s Middle-earth, University of Toronto Press, Toronto 2005, p. 115